DEPORTAZIONI NELLE REGIONI ORIENTALI 1943-45
Sottrarre i tragici avvenimenti giuliani alla rimozione e alle speculazioni politiche

 

IL PUNTO SULLE FOIBE E SULLE DEPORTAZIONI NELLE REGIONI ORIENTALI 1943-45 

“Noi italiani abbiamo perduta la guerra, e l’abbiamo perduta tutti,  anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere e anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime”.

                                                                             Benedetto Croce

 

            Vorremmo tentare di fare il punto sulla memoria delle foibe, riportate alla luce dell’opinione pubblica dopo decenni di silenzio, e sui problemi collegati dell’esodo degli italiani dall’Istria, da Fiume e da Zara  (l’esodo è l’altra vittima della colpevole dimenticanza italiana) e delle cause e responsabilità del silenzio che ha avvolto le questioni relative alle terre perdute ad est della nostra Penisola.

            I problemi dibattuti quindi sono due: il primo è dato dalla verità,  dalle responsabilità e dalle dimensioni dell’eccidio nelle foibe (oltre che nelle prigioni e nei campi di lavoro jugoslavi);  il secondo problema è costituito dalla rimozione che i governi, i partiti, i cittadini italiani hanno fatto della perdita dei territori orientali, dell’esilio di tanti profughi e dell’uccisione di molti connazionali. La rimozione raggiunge punte di ridicolo nella tragedia, come nel caso di Norma Cossetto, una studentessa uccisa nelle foibe dell’Istria orientale nel settembre 1943 e ricordata da una lapide nell’Università di Padova come vittima dei nazisti (è un caso analogo a quello del fratello di Pasolini, mai ricordato dal poeta: ucciso con altri partigiani “bianchi” dai partigiani comunisti italo-jugoslavi, che volevano annettere anche Udine e il Friuli, fu citato una volta sul “Corriere della Sera” come fucilato dai nazi-fascisti).

            Manca quindi agli italiani un pezzo della nostra storia recente: e lo sa bene chi per anni, cercando di penetrare il muro d’ignoranza dei connazionali, s’incontrava con la meraviglia e lo stupore (quando non era il fastidio) anche di persone altrimenti colte e informate. Ben venga dunque la rimozione delle rimozioni, ben vengano dunque la consapevolezza e il dibattito critico. Ma ci dispiace che essi s’accompagnino spesso all’ignoranza di molti che pure vorrebbero spiegare e alla perdurante speculazione politica.

I fatti nel contesto storico:

ma comprendere non è perdonare

            Prima di tutto, occorre situare la tragedia degli italiani nel 1943-45 (e oltre) nel contesto storico più ampio del dominio fascista sulla Venezia Giulia dal 1922 al 1943 e della guerra anti-partigiana del 1943-45. Purtroppo, il volto dell’Italia dal 1925 è stato quello del nazionalismo più spinto, della dittatura, del razzismo e poi della guerra. Già prima dell’avvento del fascismo al potere, le squadracce di Mussolini si erano distinte per atti di violenza nei territori liberati nel 1918 o occupati temporaneamente: ne è stato simbolo tragico l’incendio dell’Hotel Balkan a Trieste (1920), che conviveva in un edificio con le associazioni culturali slovene: queste furono distrutte,  nell’albergo morì una coppia di sposi boemi in viaggio di nozze. Inoltre, il trattato di Versailles, mentre, con l’eccezione di Zara, ci negava la Dalmazia promessa dal Trattato di Londra, in nome della guerra vinta e della maledetta, ottocentesca teoria dei confini naturali e militari, assegnò all’Italia un grande numero di sloveni e croati nella parte della nuova regione più vicina alle Alpi Giulie. Ne restava fuori lo Stato libero di Fiume, che fu spartito nel 1924 con  il trattato italo-jugoslavo di Rapallo: la città con Abbazia  fu assegnata all’Italia, il sobborgo fiumano di Susak e diversi paesi croati andarono alla Jugoslavia.

Intanto vennero gli anni della dittatura, che proibì i partiti, le associazioni, le scuole e i giornali di sloveni e croati; per noi questi erano gli effetti del governo fascista, per sloveni e croati erano gli effetti del governo italiano. Fascista e italiano divennero sinonimi. Il nazionalismo e la dittatura erano permeati di un senso di superiorità che non è esagerato definire razzista: quando si tenta di negare il razzismo fascista, si dimentica che, ben prima delle leggi anti-ebraiche del 1938, i provvedimenti anti-slavi (fino all’interdizione delle loro lingue) e, nelle colonie, la proibizione dei matrimoni di soldati e coloni con le indigene, furono due evidenti esempi del razzismo e della “superiorità” latina sui popoli “inferiori”. A ciò si aggiungano, nella Venezia Giulia, le sentenze del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e le fucilazioni degli sloveni irredentisti, quattro nel 1930 e cinque  nel 1941. Nello stesso 1941, l’esercito italiano invase la Jugoslavia con i tedeschi: metà della Slovenia (la nuova provincia di Lubiana) e gran parte della Dalmazia furono annesse all’Italia, il Kossovo serbo-albanese fu annesso alla “nostra “ Albania, mentre zone della Croazia e il Montenegro furono occupati dalle  truppe italiane.

Dopo l’8 settembre 1943, i nazisti – pur lasciando i podestà e i prefetti italiani nella Venezia Giulia – gli tolsero anche quella parvenza d’autonomia e d’autorità che avevano nella Repubblica Sociale: istituirono il Litorale Adriatico (Adriatisches Künstenland, il vecchio nome austriaco), con le province della Venezia Giulia – Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, più Udine – e gli misero a capo un Gauleiter tedesco. Le truppe naziste e repubblichine combatterono una guerra spietata contro i partigiani, anche con episodi di ferocia sulla popolazione civile, che Giacomo Scotti elencò in un saggio del febbraio-marzo 1997 su “Il Ponte della Lombardia”.

Sia chiaro: le colpe italiane e fasciste non giustificano le colpe jugoslave e antifasciste, e basterebbe ricordare gli infoibamenti di tanti innocenti, come la già ricordata studentessa Norma Cossetto, colpevole soltanto di essere figlia di un fascista (probabilmente torturata e violentata prima d’essere uccisa, come sostengono alcune fonti), o delle tre sorelle Radicchi di 17, 19 e 21 anni. Ma il giudizio storico non si preoccupa tanto delle giustificazioni, quanto delle spiegazioni. Sbaglia chi, da una parte o dall’altra, ancora adesso, a sessant’anni di distanza, vuole sostenere che le vittime fossero da una parte sola, negando anche l’evidenza. Insomma, comprendere non è perdonare; ma comprendere è necessario. Anche da questo punto di vista, è importantissimo rileggere l’articolo di Claudio Magris sul “Corriere della Sera” del 10 febbraio 2005, fondamentale per la conoscenza di queste vicende, come il suo successivo intervento alla trasmissione televisiva di Giuliano Ferrara su La 7.
Vendetta popolare

o genocidio organizzato?

Ci sono due momenti nella terribile storia delle foibe. Nel settembre 1943, un certo numero d’italiani di Fiume e della costa orientale dell’Istria fu ucciso nelle foibe situate nei dintorni di Arsia, e altri, dell’Istria centrale, nelle foibe intorno a Pisino. Due anni dopo, nel maggio-giugno 1945, durante i quaranta giorni dell’occupazione jugoslava di tutta la Venezia Giulia, durata sino al 12 giugno 1945, fu la volta dei goriziani,  dei triestini e degli istriani, gettati nelle foibe carsiche (due sono nella periferia carsica di Trieste, a Basovizza, e a Opicina) e in quelle dell’Istria centrale. Da Trieste, Gorizia, Pola, Fiume (e dalle cittadine istriane  rimaste sotto l’occupazione jugoslava anche dopo il giugno ’45), furono certamente molti (italiani, ma anche oppositori sloveni e croati al regime di Tito) i deportati nelle prigioni e nei campi di lavoro, soprattutto per la costruzione dell’autostrada Zagabria-Belgrado, o gli uccisi per vendette private e per cause “sociali”. A proposito di questi ultimi, occorre ricordare che molto spesso i proprietari terrieri in Istria erano italiani, mentre i contadini erano quasi sempre croati, e quindi la guerra al fascismo e la lotta fra le nazionalità si mescolavano con la lotta di classe. Dalle testimonianze dei profughi, spesso loro parenti, sembra che siano stati molti i medici, i notai e i preti chiamati nelle campagne al letto di qualche moribondo, vero o presunto, e mai più tornati alle loro case o alla parrocchia. Anche Enzo Bettiza ha scritto (in un articolo su “La Stampa”, riportato da “La Voce del Popolo” del 16 febbraio 2005) che la prima fase delle persecuzioni “subito dopo l’8 settembre 1943, aveva visto plebi rurali slovene e croate sollevarsi contro i ”signori”, in gran parte italiani, ma non solo, che a centinaia subirono aggressioni mortali”.

 Le foibe non esauriscono le atrocità, ma ne sono il simbolo più noto. Gli infoibati del 1943 e ’45, i deportati fucilati o morti di stenti, i morti della lotta di classe furono vittime delle vendette degli sloveni e croati oppressi dal fascismo o di un piano sistematico di genocidio? Non ci sono prove che il piano dell’eccidio etnico esistesse già nel 1943 e sembra quindi giusto negarlo. Non lo fanno soltanto i croati, che parlano solo di fascisti uccisi, italiani ma anche croati. Lo negano anche Giacomo Scotti, nel saggio citato, e alcuni studiosi triestini. In mancanza di prove contrarie, e in presenza di un’efferatezza popolare, spesso neppure organizzata, propendo anch’io per negarlo, almeno per ciò che riguarda le foibe di Arsa, ma con qualche dubbio per le foibe dell’Istria centrale.

Ciò non toglie che la seconda fase, quella del 1945, “in cui perderanno la vita migliaia d’istriani” – come scrive ancora Bettiza – segue il copione “applicato dalla polizia segreta sovietica alle popolazioni caucasiche, in particolare cecene e tartare, accusate di connivenza con gli occupanti germanici: la caccia all’uomo si dispiega alla svelta, alla rinfusa, di notte, in un incrocio di delazioni, vendette private, rapimenti in parte mirati in parte casuali; dopodiché si compirà la deportazione per alcuni e l’eccidio di massa per i più nei baratri carsici”.

Dopo che nell’agosto 1996 Stelio Spadaro, allora segretario del Pds di Trieste, aveva rimosso il silenzio della Sinistra sui fatti del 1943-45, lo storico triestino Galliano Fogar negò che anche le foibe del maggio ’45 facessero parte “di un piano di sterminio etnico”, in un articolo apparso su “Lettera ai compagni” del settembre 1996. Ma in quell’articolo Fogar apparve contraddittorio perché appoggiava la sua negazione ad una dichiarazione del leader del partito comunista sloveno degli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra, Edvard Kardelj, che aveva dato la direttiva di “epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo (ripetuta in diversi messaggi del 29, 30 aprile e 1° maggio 1945).  Però lo stesso Fogar chiariva che secondo Kardelj per fascisti s’intendevano “tutti gli oppositori politici, nazionali, ideologici”, compresi gli uomini del CLN di Trieste e Gorizia in quanto non comunisti e oppositori delle annessioni alla Jugoslavia. Del resto,  il 30 aprile 1945 lo stesso Kardelj scriveva a Boris Kidric: “Punite con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale”, cioè tutti coloro che si fossero opposti all’annessione.

            Ma c’è di più. Milovan Gilas, il braccio destro di Tito nella guerra partigiana e nell’ideologia anti-staliniana,  poi passato all’opposizione, in un’intervista a “Panorama” (21 luglio 1991) aveva dichiarato: “Nel 1946 io ed Edvard Kardelj andammo in Istria ad organizzare la propaganda anti-italiana. Bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo”. Se questo avveniva in tempo di pace, figuriamoci prima. Sembra di leggere i manifesti delle Brigate Rosse, “Ucciderne uno per educarne cento” o per farne andare via mille. E questo è anche il pensiero di Nicola Tranfaglia (“L’Unità”, 22 agosto 1996): “ Si tratta di azioni di terrorismo nazionalista che non hanno nulla da invidiare, quanto a metodi e conseguenze, ad ogni altro eccidio di quegli anni e non hanno alcuna giustificazione storica”.

           

La ricerca della verità

in Italia e oltre confine

            Al tempo del regime comunista jugoslavo, l’argomento foibe era tabù. Dopo il dissolversi della Jugoslavia, è stato possibile anche in Slovenia (molto meno in Croazia) parlarne cercando l’obiettività. Addirittura, una decina d’anni fa , mentre mi trovavo a Fiume, vidi in un programma di TeleCapodistria le riprese di un gruppo di speleologi sloveni  che scendevano in alcune foibe per controllare se contenevano vittime degli eccidi. Naturalmente, come non mancano in Italia estremisti di destra che negano ogni atrocità delle nostre truppe d’occupazione, così avviene anche nella ex Jugoslavia. Il telefilm “Il cuore nel pozzo”, voluto dagli ex fascisti al potere in Italia, al suo annuncio aveva già suscitato le proteste del ministro sloveno degli esteri, Ivo Vajgl; e, dopo la presentazione del telefilm a Trieste, il 4 febbraio 2005, l’associazione degli ex partigiani sloveni e comunisti di Trieste ha protestato contro una fiction “piena di menzogne”. Ma ciò è normale, e forse meritato. Molto peggiore è la tesi  dell’assemblea dei combattenti antifascisti croati svoltasi il 4 febbraio a Pola: l’oratore principale, Tomo Ravnic, ha contrapposto i 17 mila istriani caduti nella guerra di liberazione “ai (soli) 284 fascisti uccisi dopo regolari  interrogatori”, che non erano soltanto italiani, ma anche fascisti croati. E il giornalista Armando Cernjul è arrivato a sostenere: “Le foibe non sono un’invenzione nostra: cent’anni fa l’irredentismo italiano ci minacciava con trattamenti simili”. Sarà vero? Bisognerebbe dimostrarlo; e poi minacciare sarebbe una cosa, uccidere anche gli innocenti è un’altra (il resoconto dell’assemblea è stato pubblicato dal quotidiano italiano di Fiume e dell’Istria, “La Voce del Popolo”, del 5 febbraio).

            Un mese dopo, all’inizio di marzo, la fiction italiana sulle foibe è stata trasmessa dalla prima rete nazionale croata, HTV; è seguito un dibattito e poi un sondaggio: c’è stata pulizia etnica? gli italiani sono stati costretti ad andarsene? Il 38 per cento degli spettatori ha riconosciuto che vi fu effettivamente pulizia etnica contro gli italiani, ma il 62 per cento ha sostenuto che gli italiani lasciarono liberamente l’Istria e Fiume.

            Molto più seri sono gli studiosi, e prendo ad esempio Nevenka Troha, storica slovena che ha scritto un’analisi puntuale sulla scorta di una documentazione che la Repubblica slovena ha messo giustamente a disposizione degli studiosi (in AA.VV. Foibe. Il peso del passato, a cura di Giovanni Valdevit, Marsilio 1997,  per conto dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia). Il curatore del libro è piuttosto critico verso Nevenka Troha che avrebbe colto nella vicenda delle foibe “solo un elemento del contesto, e cioè il fascismo e la sua politica oppressiva nel confronto di sloveni e croati: l’ha vista cioè come l’episodio finale di una lunga e sanguinosa lotta di liberazione, nei confronti del quale potrebbe attagliarsi la massima <chi semina vento, raccoglie tempesta>.” Francamente, non sono d’accordo; può darsi che vi sia qualche inevitabile accento nazionale in più (come probabilmente v’è negli studi italiani, anche i più seri); ma nel saggio della storica slovena vedo molta obiettività, tanto che essa non nasconde che la polizia segreta jugoslava, l’OZNA, fu protagonista di arresti, deportazioni e infoibamenti, e  influenzò decisamente i pochi processi delle autorità militari. Che il comunismo, come dice Valdevit, dalla Troha “venga considerato come un incidente di percorso e quindi più come elemento accessorio che sostanza” non mi sembra significare che “In tal modo l’interesse nazionale viene, per così dire, purificato”:  mi pare, al contrario,  che questo pensiero dell’interesse nazionale si avvicini all’analisi più “italiana”, per la quale l’odio etnico e la voglia di rivalsa sui “padroni” agricoli  erano profondamente radicati in Slovenia fin dall’Ottocento, quando il massimo poeta sloveno, Frane Preseren (1800-1849) invocava “Fa che il Soça (Isonzo) diventi rosso / di rosso sangue italiano”).   L’odio dei  contadini contro i ricchi italiani delle città, orchestrato sia dai vescovi cattolici contro gli italiani (ebrei, massoni e miscredenti) sia dalle autorità austriache (“divide et impera”), un secolo dopo trovò nel comunismo lo strumento per realizzarsi.

            A sua volta però Valdevit ha ragione quando, nel suo saggio dello stesso volume, ricorda che “Per il gruppo dirigente jugoslavo la posta in gioco fu prima di tutto un’opera di nation building, la creazione di un’identità nazionale jugoslava… fra nation building e comunismo il nesso è inscindibile  (tant’è che alla lunga la Jugoslavia andrà in pezzi quando quel nesso si romperà)” .

 

Quanti furono uccisi?

Ma veniamo al numero delle vittime, sul quale non v’è nessuna certezza. Tralascio, almeno in questo primo saggio,  le fonti neofasciste che sembrano calcolare il numero delle vittime sempre per eccesso. Ma anche gli altri dati non scherzano. E intanto: chi erano gli uccisi? Tutti criminali di guerra? O tutti fascisti?  Lo storico Raoul Pupo ricorda (nel libro curato da Valdevit, già citato) che fra le vittime ci sono i finanzieri della legione di Trieste e le guardie civiche della stessa città; le due formazioni non avevano mai partecipato ad azioni anti-partigiane (le guardie civiche erano state un espediente per non fare arruolare i giovani triestini nell’esercito repubblichino) e avevano partecipato all’insurrezione italiana del 30 aprile 1945 sotto il comando del CLN, ma tutto ciò non salvò molti di loro dalla morte. Per gli jugoslavi, secondo Pupo, la partecipazione all’insurrezione anti-tedesca veniva considerata “come la prova del preciso intento delle stesse forze che avevano già sostenuto i fascisti, di continuare a svolgere la loro funzione anti-slava mutando bandiera: e ciò non fece che aggravare, spesso irrimediabilmente, la situazione”.

Nel 1992 Mitja Ribicic, che era stato uno dei capi del comunismo sloveno, dichiarò alla storica Nevenka Troha che gli eccidi di massa cessarono dopo il 21 giugno 1945, mentre le esecuzioni successive furono decise dai tribunali civili e militari: “Le fucilazioni avvennero nel poligono di Rudnik, le impiccagioni nel tribunale di Lubiana e le salme furono inumate in fosse comuni allestite al cimitero di Zale…… la sparizione di alcuni esponenti della Resistenza italiana (ad esempio i goriziani Olivi e Sverzutti) è imputabile a eccessi, errori o forse a certe pressioni di agenti sovietici in buoni rapporti con determinati vertici dell’OZNA”  (in Roberto Spazzali, Contabilità degli infoibati – vecchi elenchi e nuove fonti”, in AA.VV:, “Foibe. Il peso del passato”, già citato). Anche Nevenka Troha elenca molti antifascisti italiani arrestati come fascisti: i due goriziani ricordati da Ribicic, il triestino Carlo Dell’Antonio, organizzatore militare del CLN, democristiano, arrestato nel maggio e disperso; dodici giovani democristiani, guardie civiche combattenti nell’insurrezione del 30 aprile, arrestati il 24 maggio e mai tornati; i 75 antifascisti goriziani in favore dei quali il Comitato circondariale dell’Osvobodilna Front (Fronte di Liberazione) tentò d’intervenire  presso il comando dell’OZNA.

            Fra i deportati che tornarono, ricordo Michele Miani, rappresentante del PRI nel CLN di Trieste, poi presidente del comune di Trieste (sindaco), nominato dagli Alleati fino alle elezioni del 1952, e Ida De Vecchi, ex repubblichina, imprigionata a Lubiana. Nevenka Troha scrive che “Rimane tuttora ignota la sorte dei detenuti italiani che verso la fine di dicembre del 1945 o agli inizi del gennaio 1946 furono prelevati dalle carceri dell’OZNA di Lubiana e presumibilmente liquidati”. E dopo riferisce che i militari italiani, prigionieri di guerra dei tedeschi in Jugoslavia, o che attraversavano Slovenia e Croazia per tornare in Patria, in un numero fra 17 mila e 40 mila secondo le varie fonti, furono fatti prigionieri dall’armata jugoslava e vissero malissimo nei campi di concentramento; molti morirono per fame o per la crudeltà di alcuni sorveglianti: “Particolarmente gravi erano le condizioni nel campo dei prigionieri di guerra a Borovnica… Nella Venezia Giulia non tardarono a farsi sentire delle voci sulle cattive condizioni del campo di Borovnica, considerato come un secondo Dachau”.

Veniamo ai dati quantitativi. Un comitato anglo-americano d’inchiesta nell’agosto 1945 parlò di 17 mila arrestati per la sola provincia di Trieste; di questi ottomila furono rilasciati, tremila uccisi e seimila deportati in Jugoslavia; invece gli sloveni parlano di 1.600 scomparsi per Gorizia e Trieste. Né gli alleati né gli sloveni citano i morti dell’Istria e le sentenze dei tribunali militari. Per il biennio 1943-45 e per l’intera Venezia Giulia, più Fiume e Dalmazia, la Croce Rossa aveva calcolato 4.100 scomparsi.

Roberto Spazzali, nello studio citato, ricorda i primi elenchi dei deportati (Associazione congiunti dei deportati di Trieste e Gorizia in Jugoslavia; schedario di Dora Salvi, custodito presso la Biblioteca civica di Trieste col nome di “Albo d’oro. Seviziati, trucidati, deportati 1943-44-45”);  l’elenco curato dal primo sindaco eletto di Trieste, Gianni Bartoli, “Martirologio delle genti adriatiche”, la cui prima edizione riporta circa 5.000 caduti e 5.000 vittime dei bombardamenti, delle quali almeno duemila a Zara (ricordando che la cittadina aveva dodici mila abitanti, si è trattato – in proporzione – di effetti dei bombardamenti eguali a quello di Dresda: e si è sempre sospettato di insistenze jugoslave sugli anglo-americani perché bombardassero duramente Zara per fare fuggire gli italiani superstiti); nell’ultima edizione (1961), più precisa, l’elenco fa ascendere a 4.122 il numero degli scomparsi, che coincide con il numero della Croce Rossa. Di questi 1.228 erano militari o militarizzati, diciotto esponenti del partito nazionale fascista e funzionari dello Stato, dieci partigiani, eccetera.

Dalle dichiarazioni di morte presunta avviate verso il 1955, si ricavano 601 dichiarati dispersi a Trieste e 332 a Gorizia; ma Spazzali fa notare che le dichiarazioni di morte presunta sono un dato inferiore, anche perché molte pratiche del genere furono avviate dai profughi in altre province e perché molti comuni usavano la formula generica “disperso in seguito agli eventi armistiziali dell’8 settembre”.

Si ritorna quindi ai dati, neutrali, degli angloamericani. Spazzali riferisce che, secondo un rapporto del 13° Corpo anglo-americano (3 agosto 1945)  “nell’area di Trieste erano state arrestate inizialmente ben 17 mila persone, ottomila erano state rilasciate, 6 mila risultavano internati (3 mila a Borovnica) e ben 3 mila erano dichiarati uccisi; a Gorizia risultavano arrestate 3-4 mila persone ma 1.500-2.000 risultavano rilasciate a metà giugno. Alla data del rapporto mancavano notizie di 1.500 persone dell’area di Trieste, 1.000-1.500 dell’area di Gorizia, 500-650 dell’area di Pola e 150 da Monfalcone. Nessun dato era disponibile per l’Istria e per Fiume”. Spazzali fa notare che, se i dati sono attendibili, si tratterebbe del 3,5 per cento della popolazione di Trieste e del 3 per cento degli abitanti di Gorizia. E l’Istria, Fiume, la Dalmazia? Particolarmente feroce fu l’uccisione dei professori del liceo italiano di Spalato, compreso il professor Soglian, provveditore agli studi, che avevano invano cercato rifugio nell’Arcivescovato; si salvò soltanto il professor Dudan, che nel 1944 aveva chiesto il trasferimento a Bolzano.

Fucilazioni e annegamenti

a Fiume e in Dalmazia

            Un episodio straordinariamente odioso delle stragi, ma significativo del disegno politico molto chiaro degli jugoslavi, fu l’uccisione a Fiume dei  seguaci di Riccardo Zanella, cioè del leader del movimento autonomista che, nel 1920-24, aveva osteggiato dannunziani e fascisti, preferendo l’indipendenza dello Stato libero all’annessione all’Italia. Risorto nel 1943-45, il movimento indipendentista aveva avuto molto successo tra i fiumani, scottati dall’avventurismo fascista; ma è evidente che gli jugoslavi volevano impedire a tutti i costi l’affermarsi di un’alternativa politica alla loro egemonia. Altri autori (Maserati in “L’occupazione jugoslava di Trieste”, Tone Ferenc con studi riferiti da “Il Piccolo” del 7 agosto 1990, e Spazzali in “Contabilità tragica”) documentano la persecuzione contro i rappresentanti dei partiti italiani nel CLN di Fiume, che finirono soltanto con le condanne a morte del 1946.

In Dalmazia, di solito,  l’annegamento in mare fu l’equivalente dell’uccisione nelle foibe carsiche e istriane. Mentre a Trieste, Gorizia, Fiume e nell’Istria centro-occidentale gli italiani erano la maggioranza della popolazione, in Dalmazia erano una minoranza circoscritta nelle città della costa e nelle isole, legata per matrimoni e interessi alla borghesia croata qui più evoluta che nella regione istriana. Spesso gli italiani dalmati erano bilingui, e il dialetto veneto accomunava italiani e croati. Erano dalmati italiani Nicolò Tommaseo, grande studioso della nostra lingua e autore del celebre Dizionario, Antonio Bajamonti podestà di Spàlato, Luigi Lapenna iniziatore dell’ autonomismo zaratino, che nell’Ottocento voleva il distacco della Dalmazia dalla Croazia ungherese, ma non pretendeva l’annessione all’Italia: gli sarebbe bastata l’autonomia della Dalmazia nell’ambito dell’Impero. Al tempo dell’Austria-Ungheria, nella Dieta regionale dalmata si parlava ufficialmente tanto l’italiano quanto il croato (del resto, lo stesso Mazzini nel 1866 aveva scritto: “Per condizioni etnografiche, politiche, commerciali, nostra è l’Istria: necessaria all’Italia come necessari sono agli slavi i porti della Dalmazia”). E oggi fra i tanti esuli italiani dalla Dalmazia ci sono lo stilista Ottavio Missoni, nato a Ragusa (Dubrovnik) ma vissuto a Zara (oggi è sindaco “in esilio” della città) e lo spalatino Enzo Béttiza.

            Questi scrive anche, nell’articolo citato, che nel 1944-45 gli abitanti di Zara dovettero subire ben 54 bombardamenti anglo-americani “che consumarono per conto loro un’indiretta pulizia etnica dell’enclave italiana”, che fu poi compiuta nel maggio 1945 dai soldati della Jugoslavia di Tito: “Finirono annegati nel mare, spesso legati dentro gabbie, 900 zaratini, fascisti e non fascisti, italiani e qualche croato e albanese del Borgo Erizzo. Due eminenti cittadini, i fratelli Luxardo, eredi del famoso maraschino, scomparvero nelle acque e vennero postumamente condannati come <nemici del popolo>”

Gian Luigi Falabrino

già pubblicato su “Il Ponte della Lombardia”

LINK CORRELATO

DIDASCALIA (cartina)

 La linea tratteggiata più ad ovest indica il confine italo-austriaco del 1866.

            La linea tratteggiata più ad est indica il confine italo-jugoslavo (1924-1941) dopo il trattato di Versailles e il trattato di Rapallo (spartizione dello Stato libero di Fiume).

            Con la linea nera continua si indica la cosiddetta linea Wilson, cioè il confine proposto dagli americani a Versailles nel 1919 e riproposto nel 1946: avrebbe lasciato il minor numero d’italiani alla Jugoslavia e il minor numero di sloveni e croati all’Italia. Ma nel 1919 fu rifiutata da noi italiani, perché avevamo vinto la guerra e volevamo i confini “naturali”; nel 1946 fu rifiutata dall’URSS e dagli jugoslavi, perché  quella volta erano loro i  vincitori.

            I territori quadrettati (Tarvisio a nord, Gorizia e Monfalcone a sud) sono stati lasciati all’Italia col trattato di pace del 1947.

            Tutto il territorio punteggiato è stato assegnato alla Jugoslavia col trattato del 1947.

            La striscia contrassegnata con le linee verticali avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste, secondo il trattato del 1947. La Zona A (Trieste, Muggia e quattro piccoli comuni carsici) fu amministrata dal Governo militare anglo-americano fino al novembre 1954 e quindi restituita all’Italia. La Zona B (Isola, Capodistria, Pirano, Umago, Cittanova, Buie) fu amministrata (e di fatto annessa) dalla Jugoslavia, e annessa anche formalmente  nel 1954.

 

IL PUNTO SULLE FOIBE E SULLE DEPORTAZIONI NELLE REGIONI ORIENTALI 1943-45

©, 2005

Per le foibe del 1943-45 e l’esodo dall’Istria

 

LUIGI LUSENTI – Una storia silenziosa – Gli Italiani che scelsero Tito – Goli Otok

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