IL PASSATO E IL RICORDO in due scritti autobiografici
IL PASSATO E IL RICORDO in due scritti autobiografici
C’è un momento nelle vite adulte delle persone in cui esse si fermano e si guardano indietro, al passato e al ricordo. Il loro passato, il ricordo, è racchiuso in immagini evanescenti, come di foto sbiadite in bianco e nero, e ricordare il passato, esercitare la memoria, assume il significato di un esercizio mentale che guarisce l’anima. Il ricordo e il ricordare sono spesso aspetti della nostra biografia cui appartengono precoci ferite mai guarite, che necessitano di cure anche se ormai tardive. Ci si chiede, allora, perché mettersi proprio ora, così tardi, a compiere un esercizio di ricordo così doloroso, perché mettersi a lacerare vecchie ferite in parte rimarginate? Cosa di buono ci può dare il ricordo di un fatto che avevamo magari dimenticato e da cui ci eravamo ormai distanziati?
Il passato preme sempre alle nostre spalle, è innegabile che esso fa di tutto per riemergere, nonostante i nostri tentativi di rimozione. I depistaggi che la memoria opera sono tentativi di autoguarigione dal trauma, che però non fanno altro che aumentare quella pressione. C’è allora un momento fatidico, in cui la persona decide di risalire la catena degli eventi, e andare alla verità, per liberarsi di quel peso. La scrittura autobiografica è il mezzo generalmente più utilizzato in questo tipo di operazione dal sapore archeologico. O poliziesco, o istruttorio.
Sebbene la scrittura sia un atto pubblico, perché presuppone un destinatario, un pubblico di lettori anche se solo ipotetico, la scrittura autobiografica resta un atto intimo, privato, del tutto personale. Tanto che il celebre scrittore di gialli Edgar Wallace, ne La porta dalle sette chiavi, nel 1932 ci metteva in guardia, dicendo: una delle illusioni di cui gli uomini soffrono più di frequente è quella di ritenere che gli altri si interessino alle loro memorie.
Niente di più vero di tale affermazione. Non tutti infatti posseggono l’abilità letteraria di Giacomo Casanova, grande scrittore di memorie, o di un Hemingway, che in tutti i suoi romanzi ha fatto largo uso di fatti personali, sino a scrivere veri e propri reportages autobiografici come Festa Mobile e Verdi colline d’Africa, o di un Italo Svevo o di un Giovanni Comisso, che poco o niente hanno inventato nei loro romanzi. E’ perciò imputabile allo scrittore di memorie sprovveduto di abilità letterarie un che di improvvido e di presuntuoso nell’ipotizzare o pretendere un proprio pubblico (come nei tanti scrittori a proprie spese), e in questo Wallace ha più che mai ragione.
Avrebbe avuto torto, invece, di fronte a due gioielli di scrittura autobiografica, dal sapore struggente se non lacerante, come Se anche tu non fossi, di Sandra Reberschak (Bompiani, 1993), e Grammatica dei sentimenti, di Tilmann Moser (Cortina, 1991 – prefazione di Egle Becchi).
Nel leggere questi due splendidi libri, si apprende come la scrittura sia curativa e salvifica. Moser, attraverso una narrazione molto elaborata, si riappropria dei suoi primi anni di vita, rievocando il ricordo di essere stato esiliato da una madre che doveva curare il marito morente, un passato di angosce di separazione che avrebbero avuto una ricaduta nevrotizzante nella sua vita adulta, e certamente nel suo successivo destino di psicoanalista. La Reberschak, con una prosa distesa e semplice, rievoca invece l’infanzia veneziana di suo padre, in una grande famiglia di origine ebraica.
In entrambi questi libri, il ricordo personale, grazie a una prosa magnifica, si fa anche memoria collettiva, qualcosa di molto distante dalle patetiche e abborracciate memorie di scrittori a proprie spese che, purtroppo, mi è capitato di leggere.
Il ricordo di Venezia, del Ghetto, delle vecchie zie di suo padre, del Lido, delle vacanze, delle calli in cui perdersi, del cibo elaborato nella grande cucina, sono elementi narrativi che Sandra Reberschak ha il merito di condividere col lettore facendo in modo che non siano solo personali, ma patrimonio comune. In questo salto dal personale all’universale risiede, a mio avviso, la capacità dello scrittore, dell’artista, che lo mette anche al riparo da un giudizio di presunzione. Non c’è nulla di più invadente, infatti, di un regalo non desiderato. Così come Moser, alle prese con le angosce dei primi anni di vita, riesce a penetrare oltre l’indifferenza estranea del lettore, e a farlo sentire compreso nella sua stessa esperienza. Due grandi scrittori, due anime che hanno saputo condividere l’autobiografia senza imporla.
Ma tu, con le tue braccia, devi tenere assieme tante cose, e nessuno tiene assieme te, e sei tu a dover tenere insieme te stessa, e io lo sento che è molto faticoso. Solo di quando in quando t’aiuta il tuo Dio. (Tilmann Moser).
Riuscirò a fare di lui il protagonista non di un romanzo, ma di una storia vera, che non voglio tradire più di quanto non mi costringerà l’invenzione insita in ogni scrittura? (Sandra Reberschak).

 

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