La Favela Verticale L’Apocalisse della Società a Forbice
L’individuo massa vive sperduto in immense città impersonali e inospitali, e rappresenta spesso un ingranaggio all’interno di strutture altrettanto impersonali vaste e anonime, che lo fanno sentire isolato, inutile e senza orizzonte, ignorato da tutti. In nessun luogo la solitudine è più intensa che nella moltitudine, e, pur disponendo di molti contatti, di molti rapporti, questo individuo è sempre più solo, isolato, triste, disperato, in una condizione peggiorata dall’automazione, che ha ridotto ulteriormente la socializzazione. Finito il tempo della religione e della politica, che una volta erano gli unici ambiti in grado di creare coesione. La vita si allunga. Si allunga anche la solitudine. Una maggiore istruzione ha significato una perdita della fede, una secolarizzazione dei valori trascendenti. La fede in un aldilà non ha più alcun valore dopo gli Anni ‘70 e ’80, le ideologie sociali si sono rivelate più seducenti di qualsiasi visione spirituale, facendo aumentare l’ansia, la depressione, le fobie e le tossicodipendenze. Con l’avvento di Internet, inoltre, abbiamo visto affacciarsi all’orizzonte anche la dipendenza da cyber (cyber sex, gioco d’azzardo e sottospecie di abitudini criminali) (Giacomo Dacquino – Legami d’amore – Mondadori, 1997).
Nelle città globalizzate del presente, si è rotto il patto tra Uomo e Natura, tra l’Uomo e le sue origini ancestrali, che risiedono nella foresta che vede una sua antitesi con la città, e con la megalopoli, quali simboli di una degenerazione patologica abnorme dell’ambiente naturale, in quegli agglomerati artificiali dove ormai, allo stato attuale, leggi e regole di convivenza sono completamente saltate, in assenza di nomos, in assenza di Padri. Ancora una volta assistiamo all’invasiva e fagocitante opera del Mercato quale espressione di una oralità pulsionale di tipo femminile, materna e appropriativa (secondo una lettura di tipo psicoanalitico e non di genere), che ha del tutto e per sempre perso la capacità di mettersi in dialogo con la parte maschile, più votata all’ascetismo, alla riflessione, al contenimento.
Ci sono intellettuali che parlano con entusiasmo della metropoli, e anzi vanno in astinenza quando ne sono lontani. Uno di questi è Marc Augé che così si esprime ne Il metrò rivisitato (Cortina, 2009): Non ho mai smesso di prendere il metrò, mai smesso di essere parigino. Se talvolta mi capita di imprecare contro i disagi della capitale e di sognare una città senza ingorghi e senza ore di punta, mi sento tuttavia sempre un po’ disorientato quando mi ritrovo nella pace della campagna, nella dolcezza angioina o nella solitudine delle spiagge deserte in inverno. Sono sempre vagamente nostalgico quando resto per troppo tempo lontano dalla capitale e, in fondo, mi conforta sempre ritrovarne l’agitazione e la calca.
Sembra trattarsi di uno stato di intossicazione mentale e coscienziale, in una posizione, con-fusa con l’informe delle metropoli, quell’amalgama di disordine, sporcizia, materia prima umana caratterizzanti la città.
Qui Augé sembrerebbe tracciare un’apologia dell’anonimato e dell’anomia, per finire con un afflato di fraternità di incerta vocazione: Chi sono esattamente i miei contemporanei (…) Per cercare di rispondere a questa domanda (…) inviterò dunque i miei lettori (…) a raggiungermi nel metrò e a perdersi nella folla anonima di tutti quelli che incrocio quotidianamente. Forse ci sfioreremo senza saperlo. Essi si confonderanno ai miei occhi con la massa variegata di tutti quelli e di tutte quelle che, secondo l’umore e le circostanze, mi appaiono di volta in volta molto vicini o molto lontani, ma con cui, per delle ragioni oscure, mi sento fondamentalmente solidale – anche se sono incapace di decidere del senso da dare a questo aggettivo, che oscilla, come si sa, tra la meccanica e la fraternità.
Parole seducenti, seduttive, che forse ciurlano anche un po’ per il manico… ma con cui, per delle ragioni oscure, mi sento fondamentalmente solidale, è una frase che, detta da un laico, e non da un prete, appare subito un po’ truffaldina, fuori registro rispetto a una apologia del disordine, che anche con il senso di una spiritualità non ben definita – sia essa pagana o new age, evanescente – ha poco a che vedere.
Lo salva il periodo successivo, che oscilla, come si sa, tra la meccanica e la fraternità, dove la meccanica instilla, in chi legge, il dubbio vi sia anche, all’interno di quel sentimento empatico di incerta provenienza, uno scettico distacco dall’empatia stessa, dovuto all’alienazione del capitalismo, che pure Augé critica aspramente in altri suoi scritti. Balza però all’occhio, in queste righe, la fraternizzazione (se non altro, su di un piano estetico) che gli ideologi progressisti – ancorché moralmente critici come Augé del Non Luogo quale prodotto del capitalismo consumistico – hanno fatto col capitale finanziario e produttivo, che quel caos cittadino hanno prodotto con il progresso industriale. C’è in questo scritto tutto l’humus della disgregazione moderna della società, la frammentazione del concetto di persona in quello di individuo e di numero (certamente i numeri sono cari al progressismo, più delle persone). L’ambiguità di questo intellettuale è fuori misura. E’ segno di una dismisura che si nasconde dietro la parvenza di una volontà critica, quando invece essa afferma e, in fondo, ama ciò che critica. Tutto ciò si chiama ipocrisia, conformismo.
Sulla modernità, e per estensione, sulle metropoli moderne, rintracciamo tutt’altro tenore espositivo in Julius Evola, in Civiltà americana (Controcorrente, 2010):
Quella civiltà (…) lanciatasi alla conquista della materia, (…) non ha conseguito il suo scopo che a prezzo di materializzare lo spirito, di escludere ogni forma superiore di vita, di amalgamare gl’individui nella tirannide di organismi collettivi, che quasi diremmo subumani nella loro mancanza di volto, di razionalità, di luce, nella loro soggiacenza a energie che di tempo in tempo, come galvanizzando con una vita momentanea e paurosa dei corpi morti o automatici, li scaglia gli uni contro gli altri.
Qui non ci troviamo di fronte ad alcuna forma di facile empatia nello scenario informe della metropoli, anzi, a una lotta senza quartiere fra esseri morti e automatici, per cui varrebbe meglio la metafora degli Zombie del film di George A. Romero, o della Metropoli del delitto di Giorgio Scerbanenco.
Julius Evola avrebbe imputato questo comportamento al cosiddetto “uomo obliquo”, uomo moderno, anzi, contemporaneo. L’”uomo obliquo” è la risultante di un processo di dissoluzione dei valori individuali in quelli omologanti e qualunquistici della borghesia, uno sfaldarsi della trascendenza nelle piaghe malariche del profitto. In un Paese in cui la scala dei valori non è più grande di una banale scaletta da scaffale, l’opportunismo è di rigore (Yasmina Khadra, Il pazzo col bisturi).
Nelle nostre città, l’albero secolare della foresta, l’albero cosmico, ha lasciato il posto alle torri, al “Bosco Verticale”, generando l’equivoco – ipocrita e conformista ancora una volta, obliquo – di una città che vorrebbe offrire ossigeno, utilizzando invece uno dei simboli privilegiati di una economia aggressiva e predatoria, che sta mettendo a rischio lo stesso benessere del pianeta.
Bosco Verticale è infatti simbolo di una fallimento culturale, di una rottura insanabile non solo fra Natura e Uomo, ma fra Uomo e Uomo, secondo un disegno urbanistico che si presentava come riqualificante, ma che in verità ha generato e genera esclusione, disparità, forbice sociale fra i nuovi residenti, e i vecchi, espropriati della loro storia e del loro territorio. Questo processo ha un nome, quello di gentrificazione, un sistema fondato sulla creazione di sempre nuove opportunità di profitto, a partire dalla cancellazione dei diritti di fasce di popolazione crescenti, trovando il modo di mercificare sempre nuove risorse, ampliando la sfera di ciò che è possibile mettere a profitto – la casa (Airbnb), il proprio tempo, le città. Un patto che si è rotto all’ombra del Vitello D’Oro, che oggi potrebbe essere traslato nel più aderente ai tempi Algoritmo D’Oro (Giovanni Maria Flick – Elogio della città? – Paoline, 2019), secondo una caotica e deregolamentata ascesa del liberismo sfrenato, alleato delle piattaforme tecnologiche, che – tradendo gli auspici inziali di Google come fautore di eguaglianza e democrazia (2001) – sfruttano gli individui sin nelle pieghe nascoste della loro psiche, dei loro più intimi e privati e inconfessabili bisogni, anche affettivi, senza lasciare nulla di intentato e intentabile allo scopo di fare profitto senza regole (facebook).Su https://left.it/2016/06/04/marc-auge-racconta-le-nuove-periferie/si legge, in un’intervista a Marc Augé: Lei ha scritto che i migranti sono gli eroi dei nostri giorni, ma l’Europa ne ha paura, perché? «I migranti sono eroi perché fanno a meno delle certezze ingannevoli legate all’appartenenza ad un posto fisico», spiega Augé. «A volte fanno paura, perché agli occhi di coloro che si trovano “a casa” sono la prova che il loro senso di appartenenza ad un luogo o di possesso può essere illusorio»…
La risposta, ben confezionata, sembra un parlare per slogan, tipico della retorica progressista. La frase: I migranti sono eroi perché fanno a meno delle certezze ingannevoli legate all’appartenenza ad un posto fisico, sottende un’amara verità e una vena nichilistica. I migranti non fanno a meno di quelle certezze, semplicemente, non se le possono permettere. Noi non gliele permettiamo. Il luogo fisico di cui parla Augé è proprio quel Non Luogo espropriante e depersonalizzante da lui teorizzato, altrimenti un luogo che sia un Luogo, una casa, con una radice e un’identità, offrirebbe la certezza di appartenervi. C’è qui in atto un tentativo di demitizzare il concetto di Luogo, offrendo il fianco – e qui forse c’è anche la malafede intellettuale di certa ala progressista, alleata del capitale e degli sfruttatori – allo stesso potere della finanza, che gentrifica e depauperizza città e territori, per poi eleggere a “eroi” solo dei poveri cristi venuti da lontano, il cui unico destino è quello di essere sfruttati sino all’osso anche dai loro (supposti) difensori … Ci stiamo ancora chiedendo se Augé sarebbe disposto a fare l’eroe pure lui, disposto a mollare una buona volta le sue certezze – illusorie: casa, lavoro, fama (crediamo anche immeritata), conto in banca… se gli domandassimo: “perché non molli tutto?”, probabilmente non avrebbe alcuna retorica dietro la quale nascondersi, dovrebbe ammettere l’enorme diversità tra se stesso e i migranti, dovrebbe ammettere le proprie garanzie capitalistiche che dice di disprezzare, e rinunciare a quella forma di empatia a buon mercato, che gli permette di autocelebrarsi con quegli slogan. Nell’enciclica Laudato si Papa Bergoglio richiama l’attenzione sull’indispensabilità dell’acqua per la vita umana e per quella degli ecosistemi (Elogio della città?), e sulla crescita smisurata e disordinata di molte città che sono divenute invivibili a causa dell’inquinamento (…) del caos urbano, della “privatizzazione” degli spazi riservati a “isole felici e sicure” per pochi, mentre si trascurano e si aggravano i problemi degli esclusi, dei diversi. Bergoglio forse parlava proprio del Bosco Verticale? Anche noi siamo dell’avviso che l’acqua sia un bene comune indispensabile, tanto quanto lo sono gli spazi di condivisione, perché se l’acqua è stato sempre il principiale mezzo di comunicazione fra popoli e persone, esiste un’acqua metaforica, che è la parola, che sta venendo a mancare per scarsità di luoghi gratuiti, aperti, laici di condivisione. Al posto dell’acqua oggi primeggia lo Spritz, al posto della parola, la musica assordante. Il linguaggio sta all’origine della Polis (Platone) per proteggersi e prendersi cura dell’Essere (Heidegger). Stiamo tutti – forse non tutti, forse non il Popolo dello Spritz – aspettando la venuta di una città capace di generare relazioni autentiche, secondo l’invocazione di Carlo Maria Martini, una città capace di superare la violenza di Enoch e la superbia di Babele, di superare le fatiche e le maledizioni di città erette nell’inimicizia fra gli uomini e nella discordia. Una città che non sia sempre in procinto di scivolare lungo il pendio rovinoso di un progresso degenerante. Una città capace di generare intelligenza vera e naturale, a prescindere dai fasci di intelligenza artificiale che la percorrono. Forse meno smart, ma più umana (Elogio della città?).Per questo c’è bisogno di una nuova alleanza fra Uomo e Natura, che poi si risolverà in una nuova alleanza fra Uomo e Uomo. Se si abbattono gli sprechi, si colpisce alla radice il sistema stesso del capitalismo che sul superfluo prolifica, allontanando gli uomini gli uni dagli altri in ragione di una competizione sfrenata, di una logica del sospetto di tutti contro tutti. Tornare alla sobrietà, significa tornare prima di tutto all’amicizia (Elogio della città?).

ANSA/PAOLO SALMOIRAGO