Tecnologia identità libertà a rischio
Molti di noi, forse non tutti, vivono in bilico tra il mondo reale e quello virtuale. Capita tutti i giorni di camminare per le strade e vedere persone che non guardano davanti a sé, ma fissano il proprio smartphone, come ipnotizzate, ed altre che sembra parlino da sole, ma in verità stanno conversando al telefono con dei piccolissimi auricolari infilati nell’orecchio. Una parte di noi, forse non di tutti noi, è stata fagocitata dal virtuale. Ipermondo è un’espressione che deriva dal vecchio termine ipertesto, ma ne esaspera e amplifica il significato, in quanto è capace di descrivere un fenomeno molto esteso, quello della sostituzione del mondo reale da parte del mondo virtuale, capace di generare un mondo, molti mondi, paralleli, connessi, linkati a un unico utilizzatore: l’utente. E in maniera contemporanea, in modo da alterare il rapporto col Tempo.
La presenza costante di questo ipermondo nelle vite degli utenti sta cambiando drasticamente lo scenario sociale che stiamo vivendo. L’ipermondo infatti è capace di generare comportamenti inediti, nuove abitudini, ma anche nuove patologie, che la stessa psichiatria contemporanea sta facendo fatica a comprendere, descrivere, curare. Le mancano gli strumenti interpretativi, in quanto la vecchia disciplina psichiatrica non è capace di dare un nome, e quindi di formulare una diagnosi, di fronte a comportamenti sfuggenti a ogni tipo di classificazione, fioriti nel giro di pochi anni sull’onda dei nuovi Social e delle nuove mode. L’iperconnessione è anche collegata all’immagine del tutto sbagliata dell’efficienza data dal multitasking, che deteriora il nostro rendimento quando invece ci illude di migliorarlo; esso ci fa stare bene e ci dà la sensazione di operare al meglio in ogni nostra attività, ma riesce in realtà a renderci solo meno produttivi, depressi, ansiosi e incapaci di interpretare le emozioni umane (Sherry Turkle – La conversazione necessaria – Einaudi, 2016).
Grazie agli strumenti tecnologici in nostro possesso, siamo entrati in una nuova forma di socialità che esige, da parte dell’utente, una sua completa adesione al virtuale, e obbedienza succube alle sue leggi, pena l’esclusione, la mancanza di approvazione, la mancanza di like, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista dell’autostima, della fiducia, dell’immagine di sé, in una condizione di fusionalità col medium. Noi stessi siamo media, in quella che Ruggero Eugeni (La condizione postmediale – La Scuola, 2015), definisce come habitus di una condizione nata a partire dagli ultimi anni del’900, con un apparato tecnologico sempre più mimetizzato nelle nostre forme di vita, addirittura in quelle anatomiche e biologiche, e pervasivo della nostra quotidianità, che ha liquidato i media otto-novecenteschi in nome di una naturalizzazione della tecnologia, e di una soggettivazione dell’esperienza, con conseguente primato della socializzazione, e perdita di equilibrio tra la pervasività dei media nella dimensione sociale, e loro individuabilità, tanto che oggi è diventato difficile stabilire con chiarezza cosa è mediale e cosa non lo è, quando ci troviamo in una condizione mediale, e quando no. I media sono ovunque, noi stessi ne facciamo parte. Come dice Eugeni, la tecnologia entra (…) in forma capillare nel tessuto delle azioni e delle esperienze degli individui e dei gruppi: essa costituisce tecno-ambienti ibridi e complessi, inventa forme visibili e invisibili di interazione con i soggetti (…).
Il concetto di ipermondo è connesso a quello di iperidentità (Elena Croci – Iperidentità – Franco Angeli, 2021). Ricollegandoci al pensiero di Ruggero Eugeni, l’identità soggettiva nell’era del web e dei Social, viene aumentata da link ipertesti video e immagini, da commenti e interazioni, un insieme di elementi testuali e visivi collegati al nostro account. L’iperidentità è di conseguenza qualcosa di molto fragile, che risente di un solo click, che si gonfia con molti click, ma che un blackout elettrico può cancellare. L’iperidentità risente anche del clima d’odio che stiamo vivendo, nel mondo reale, e che si riverbera tramite i click e i like nella rete, innalzando, ma anche distruggendo in un solo istante delle povere esistenze.
Ci sono storie tragiche, di adolescenti che giocano con la morte per avere un like in più, di ragazzine che si sentono grasse e, volendo imitare le coetanee che hanno molto successo su instagram, ritenute più belle, decidono di non mangiare più, sviluppando anoressia e rischiando la morte. La rete è anche il luogo in cui si organizzano, come un tempo si organizzavano delle feste, maxi risse in giro per le città, al solo scopo di scacciare la noia, o di filmare un video da mettere in rete, per avere altri like.
Per alcuni, i like sono motivo di guadagno, in soldi, come nel caso di alcuni, pochi influencer di successo, che hanno tramutato la loro conformistica adesione alla rete in un atto imprenditoriale. Per tutti gli altri, il like è un bisogno conformistico che non porta a nulla, porta solo ad avere altri like, che non portano a nulla, se non a seri danni alla salute e alla fedina penale.
Anche il marketing si è accorto di quanto è fruttuosa la fragilità emotiva dell’Essere Umano. Il marketing è fortemente legato ha un’Economia dell’iperidentità e dell’ipermondo. La posta in gioco è molto alta, pochi ci guadagnano, e la maggior parte ne paga le conseguenze in termini di alienazione, o fedina penale.
È diventato un marketing dei mondi, delle identità. Gli acquirenti non sono dei semplici Io. La loro forza è più estesa della loro semplice sfera personale, la forza delle iperconnessioni che partono dal loro account. Il marketing vive su tali iperconnessioni.
Gli ipermondi del marketing globalizzato oggi si ammantano di etica, di ecosostenibilità, rispetto del gender e attenzione a non offendere il prossimo, considerato potenziale generatore di consenso. Si parla di esperienze immersive, olistiche, di valori trascendenti che migliorano le nostre esistenze, di una nuova immagine di noi stessi, iperconnessa, espansa, fusa col cosmo: ma il marketing ha sapientemente sostituito il cosmo, quello reale, con la rete, fornendo un emozionale e compensatorio strumento di espansione del Sé, che poi è l’ipermondo che genera iperidentità. E stress. Malattia. In taluni casi, morte.
Le iperidentità che gravitano nell’ipermondo sono tutte puntualmente sorvegliate dal capitalismo della sorveglianza, alias marketing (Shoshana Zuboff – Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri – Luiss, 2019). Nel capitalismo della sorveglianza, le informazioni che gli utenti inconsapevoli producono accedendo a facebook o instagram vengono utilizzate da queste piattaforme per migliorare la user experience, e offrire agli utenti contenuti in linea coi loro gusti, interessi, i quali sono dati ottenuti dalla loro navigazione. Per questo viene utilizzato un algoritmo che ne filtra le informazioni. Le piattaforme e le società private possono accedere a queste informazioni gratuitamente, generando il capitalismo della sorveglianza. I Governi non supervisionano affatto queste attività private, e la libertà degli utenti ne è compromessa, la loro stessa identità.
I capitalisti della sorveglianza sanno tutto di noi, mentre noi non sappiamo nulla di loro. I veri clienti non sono gli utenti, ma sono i capitalisti della sorveglianza, e le fonti sono gli utenti inconsapevoli, che forniscono un surplus comportamentale, considerato materia prima. Il marketing si occupa del futuro, prevedibile, attraverso l’estrazione dei dati. Dati forniti alle aziende private per pianificare il loro futuro sulla base dello sfruttamento degli utenti. Il trading non si occupa più oggi soltanto di beni materiali, essendo diventato trading informativo, cioè, scambio, interpolazione e diffusione di dati digitalizzati (Big Data), scambio che si verifica con la piena consapevolezza acquiescente dell’utente coinvolto o, più spesso, nella sua più totale inconsapevolezza, limitandone la libertà soggettiva.

 

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