Spezzatino di manzo stampelle e tanta buona umanità
Spezzatino di manzo stampelle e tanta buona umanità
Spezzatino di manzo stampelle e tanta buona umanità, un bicchiere di vino a un euro, due parole cordiali con un homeless, quella perduta atmosfera da circolo operaio o indigenti di epoche ormai remote e sepolte da tonnellate di benessere, che ci hanno fatto perdere l’amore per l’immediatezza di una cena da quattro soldi, coi piedi al caldo e il portafogli non minacciato da un conto esorbitante.
Questo è il luogo di un sogno, di una visione, o forse di una fiaba ebraica. Vicino alla Stazione Centrale, tra il Commissariato e lo scalo merci, un vecchissimo ristorante italiano passato in mano cinese, stessi arredi e stessa insegna, stesse luci al neon e tavoli da mensa dei poveri, ma tovaglie sempre pulite, cibo abbondante e tanta educazione. Il ritmo delle cameriere è da fabbrica, non appena prendi posto, sempre la stessa che ormai conosci per nome, ti piomba al tavolo con penna e taccuino in mano, ferma sull’attenti come un soldato, scarabocchia le ordinazioni e sparisce con un cenno di educata sottomissione orientale.
Io e Silvia l’abbiamo scelto come nostro quartier generale. Una volta alla settimana facciamo un briefing coi nostri molteplici appunti e ci aggiorniamo vicendevolmente sui rispettivi lavori che portiamo avanti in comune. All’arrivo, mi siedo nel gazebo e mi fumo una sigaretta con un bicchiere di vino. Il vino al calice costa un euro. Decente. Non di rado, ti dà il benvenuto un soddisfatto uomo cencioso che siede a fumare il suo sigaro, le mani inanellate e la radiolina accesa, anche lui col suo calice di rosso o di bianco, uno che probabilmente gode di una piccola pensione e dorme sotto uno dei vicini ponti della ferrovia, e ti accoglie con un sorriso che filtra sotto la folta barba selvatica, il viso che si accende in una esplosione di rughe, e ti dice: “buona sera!”, come fosse il padrone di casa, ad alta voce, sintomo di sordità e lieve demenza. Con la stampella appoggiata alla sedia, le gambe allargate e la posizione del corpo adagiata allo schienale con senso padronale, sembra disporre di quel luogo come un Re. La radiolina trasmette un programma culturale di Rai radio 3 sul metodo Stanislavskij, ma tanto gli tiene compagnia, e la sua allegra disposizione a godere il momento presente è così intensa, che noi capiamo che non gli importa poi molto di quello che dice il conduttore radiofonico. Due battute, un brindisi da un tavolo all’altro, lui, come un regnante d’altri tempi, ti dispensa la sua bonomia. Le ali di un angelo svolazzano nel buio della notte, appena rischiarate dal lampione all’angolo davanti alla farmacia dalla saracinesca abbassata, e le trombe dell’apocalisse risuonano nei grandi televisori al plasma collegati con l’Ucraina. Un sagace cameriere cinese devia il notiziario su una anodina partita di calcio. Le schiene dei commensali evocano lavori pesanti e mal pagati, gli sguardi incurvati sul piatto, le movenze pacate di chi ha le ossa rotte da lavori di manovalanza bassa.
E le bocche gustano con un masticare lento le pietanze, le grosse mani da pittura cubista spezzano il pane, lo intingono nel sugo con una dedizione piena di amore. Amen, la sera si apre con una sorta di preghiera di tutti noi, che il telegiornale non annunci il peggio.

Siamo tutti così attaccarti alla vita. Noi che a volte l’abbiamo disprezzata, ora temiamo la bomba nucleare. Ed è shockante sentire con che disinvoltura il tabù sulla soluzione finale sia stato tolto. Orami, si spera solo che la Russia non usi le armi chimiche. Tre mesi fa, speravamo che la pandemia finisse. La pandemia appartiene a un’altra epoca, a un prima, una nuova Guerra Fredda è alle porte.
Silvia siede davanti a me. Pepe le sta in braccio, io tengo il guinzaglio sotto il tavolo. Le preparo la ciotolina con le sue crocchette. Gesti… gesti d’amore, di un amore che potrebbe essere spazzato via in una vampata termonucleare.
Tutto tace, Kiev è il simbolo di un intero Occidente in attesa.
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Non siamo mai stati così innamorati, io e Silvia, Pepe io e Silvia, e così strettamente coesi. Siamo in tre, siamo un nucleo famigliare a tutti gli effetti.
Con la sua camicetta bianca sotto il golfino nero, la faccia pallida e i grandi occhi scuri, Silvia non finisce di incantarmi. Apre sulla tovaglia, in attesa delle portate, un grosso quaderno traboccante di appunti. I suoi occhi sono sempre gioiosi, ottimisti. Non le nascondo la mia angoscia, ma me ne vergogno. Vorrei essere più forte.
Sino a due giorni fa, mi ritrovavo spesso a piangere. Anche adesso, sento bruciarmi gli occhi. Certe immagini di profughi e bambini mi ritornano in mente.
«Ho elencato per punti le cose in ordine di urgenza», dice Silvia. Mi mostra gli appunti.
Silvia si occupa dell’organizzazione del nostro lavoro. Io fisso il grande schermo.
«Mi segui, per favore? Puoi smetterla di pensare a questa guerra?»
Lei è ottimista anche per me.
«Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per Pepe, se sei così angosciato fai male anche a Pepe.»
«Hai ragione, scusami.»
Osservo un uomo cinque tavoli oltre che gesticola e parla da solo. Due cene prima, veniva a parlare al tizio accanto a noi, di cose che li riguardavano, di morti, di conoscenze. Osservavo e osservo le vecchie giacche stazzonate, i pesanti maglioni che stanno sotto, le povere bocche sdentate, eppure, in quella estrema povertà, abitano un garbo e una sapienza infinite, un’umanità direi crepuscolare. Alcuni sono colti, lo senti, forse borghesi decaduti, che hanno perso tutto. Mi piace parlare con loro. Riscopro che di grandi discorsi non c’è bisogno per sentirsi vivi. Si parla di quanto è buono il risotto, e abbondante lo spezzatino in umido. Eccetera.
Intuisco delle relazioni di conoscenza tra i commensali, non delle vere e proprie amicizie, qualcosa tipo caserma o dormitorio, fra questa umanità così selvatica. Qualcosa di umano, e forse di più sincero della cosiddetta amicizia borghese.
Dopo aver mangiato gli spaghetti al ragù, esco a fumare una sigaretta con Pepe. La tengo in braccio.
Mi siedo a un tavolino sulla pedana esterna. Mi arrotolo una sigaretta, un viso noto mi si mette di fronte e mi rivolge la parola:
«La tua cagnolina mi fissa…»
«Ti sta studiando, se fidarsi o meno… l’hai trovato un cagnolino?»
«No… non mi hanno più scritto…»
La volta prima, il tizio mi aveva raccontato che avrebbe desiderato anche lui un cane. Era un amico – sempre tipo caserma o dormitorio – di un insegnante di sostegno separato dalla moglie, incattivito verso il mondo e le donne, mangiatore di aglio e fumatore di sigari, astensionista dal lavoro e no vax, un povero cristo che parassitava lo Stato italiano e ne faceva un punto d’orgoglio.   
Un commensale sedeva vicino all’ingresso, avevo saputo che dormiva sotto i ponti e malgrado ciò aveva sempre gli occhi lieti dietro le spesse lenti da miope, e il viso sorridente in una sorta di espressione semi ebete, camminava tutto storto reggendosi a un bastone, e in quel momento lasciò scappare una scoreggia.
«Salute», gli disse il tizio che parlava con me.
L’altro: «Ma tu allora ci senti bene!»
A me, il tizio numero uno: «Quanti anni ha?» Stava in piedi in una posa rigida, infagottato in vestiti che stringevano all’eccesso il suo corpo gonfio. Aveva un’aria remissiva, amareggiata anche nel sorriso, un sorriso più che altro di dolore, da congestione.
«Ne fa tre a maggio.»
«Mi ricordo quando l’hai presa, era piccolissima.» Balbetta leggermente, questa volta.
«Adorabile. Tu sei Antonio… ora ricordo il tuo nome…»
«Sì, tre anni fa ci sedevamo qui fuori, con Salvatore, non avevi ancora lei…» Salvatore era l’insegnante.
«Sei del personale non docente…»
«Pulisco i cessi», qui la sua amarezza e la sua modestia vengono fuori nella forza del suo accento salernitano.
«Sei un bidello, in poche parole.»
Lui mi sorride, grato per la franchezza.
Ma forse, in questa mia non reticenza, l’ho offeso. Ci penso, osservo la sua faccia, non sembra avvilito più del suo solito. Mi spiacerebbe. Ho talmente tanti pensieri sull’umanità nella testa, che dovrei prendere appunti da mattina a sera. Rimpiango di non avere letto tutti i libri che avrei voluto, per trovarvi delle risposte sull’Uomo che ancora mi mancano.
Sto leggendo Il passato e i pensieri, di Aleksandr Ivanovič Herzen. In quelle righe, ci sono alcune risposte sul populismo, sull’umanità. Sulla tendenza dell’Uomo di creare massa. Di amare l’informe come fonte di verità e bellezza. In fondo, amo l’anonimato delle città. Il flusso baudleriano del modernismo in cui confondersi come onda anonima e informe in un mare. In fondo amo proprio ciò che non dovrei amare, l’informe e l’anonimo, il contrario dell’individualità e della cultura.
Ma me ne torno al tavolo, dove ritrovo i miei amori, un’ancora che mi dà un approdo sicuro, in questa notte fatta di incertezza. I nostri sentimenti trovano nelle ore notturne una cassa di risonanza. Non sempre positiva. Gioca spesso la suggestione a farci provare ansie notturne spaventose. In quei casi, la cosa migliore è mettersi a letto e non pensarci. Ci sono tuttavia anche suggestioni serali positive. Essere in compagnia di chi si ama, mangiare, conversare e fare progetti sul futuro. Tra me e Silvia si è creata questa unione di intenti. Come per lo stesso Herzen, per noi due il lavorare è come pregare, il compiere un atto dal valore sacrale e propiziatorio.
quadro di Honoré Daumier
Nel lavoro e nell’amore sono in gioco sentimenti molto simili, fu Sigmund Freud a sostenerlo per descrivere una personalità sana. Come sentimento universale, l’amore ci può unire anche a un’idea, a un valore, a un aspetto della realtà svincolato da caratteri materiali. L’ideale dell’uguaglianza, del rispetto, della dignità, sono valori astratti generati dall’amore. Così, nel momento in cui facciamo un passo verso l’Altro, e ci mettiamo nei suoi panni, stiamo compiendo un atto profondamente culturale, chiamato empatia. Mi sono ritrovato ad amare i quadri di Honoré Duamier, e gli scritti di Jules Michelet, consapevole che – nel loro amore per gli svantaggiati – vanno sotto il nome di populismo. Il termine è spesso equivocato, e ammantato di un valore negativo.
Un pittore di nome Varlin avrebbe poi riassunto in chiave novecentesca lo stesso impeto sociale di quegli intellettuali ottocenteschi: «Nessuno, nel nostro secolo – ha scritto Giovanni Testori nel 1976 – è riuscito come Varlin a esprimere il cuore, il sangue, le ossa, le palpebre, le artriti e i calli della vita… nessuno come lui, è stato dalla parte di chi non ha potere alcuno, dalla parte del barbone assoluto, legatissimo e insieme liberissimo clochard».
Giovanni Testori fu tra i primi a scoprire Varlin – pseudonimo dello svizzero Willy Leopold Guggenheim (Zurigo, 1900 – Bondo, 1977) – coetaneo di Antonio Ligabue e come lui «affamato» di verità da trasferire sulla tela. Verità non estranea alla descrizione del dolore e della miseria, dell’umanità. Credo che si possa amare il popolo anche senza essere populisti, amandone l’umanità. Per quel valore di verità insito nel suo aspetto che non mitiga la fatica, lo sfruttamento, l’avvilimento. Se si fa lo sforzo di comprendere cosa ci sia dietro un volto, un’espressione, stiamo compiendo un atto culturale ed empatico, di umanità. Credo di provare lo stesso desiderio di Varlin e di Daumiuer, di ritrarre, a parole, ciò che loro ritraevano col pennello. La mia non è un’ideologia, ma una disposizione psicologica. Il desiderio di cogliere l’umano sotto la maschera della miseria, l’umanità degli umili.
Spezzatino di manzo stampelle e tanta buona umanità
Varlin
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