L’IDENTITA’ CULTURALE IN TERRA DI BRIANZA
 
Tra i mutamenti più importanti vissuti dalla Brianza negli ultimi decenni ci sono sicuramente quelli della sua identità culturale. Una popolazione di contadini, profondamente legati ai campi, non solo perché l’attività agricola era praticata da quasi tutti, ma anche perché essa suggeriva o imponeva tutta una serie di comportamenti e di valori, è diventata rapidamente, forse troppo rapidamente, una popolazione di operai, legata al ritmo monotono della fabbrica. E’ vero che in BRIANZA il cambiamento è stato meno drammatico che per altri, pensando, ad esempio, al disagio sociale e culturale dei contadini meridionali diventati negli stessi anni operai delle grandi città del Nord, perché molti brianzoli hanno vissuto una fase di adattamento lavorando in fabbrica di giorno e nel loro pezzetto di terra alla sera. Ma a poco a poco la cultura contadina se ne è andata: e io condivido le opinioni degli studiosi che la considerano l’unica cultura autenticamente popolare conosciuta dalla Brianza. Il popolo infatti ne comprendeva i principi e i valori, che davano forma e significato alla sua vita e che gli conferivano insomma una precisa identità culturale e sociale. Per questo vale la pena di ripensare alla identità culturale contadina: tanto più che probabilmente è proprio la cultura perduta l’oggetto della nostalgia che spesso si avverte nei giudizi espressi oggi sulla vita dei nostri nonni. Eppure non sono certo da rimpiangere, se appena ne approfondiamo la conoscenza, le condizioni materiali in cui un tempo si viveva. Era un’esistenza chiusa ed angusta, per la quale il paese ed il cortile erano il mondo; un percorso di poche decine di chilometri diventava un vero viaggio, quasi un’avventura; l’istruzione come la conoscenza della lingua nazionale erano riservati a pochi: non solo l’Italiano, ma anche il dialetto di una zona vicina erano lingue straniere per i più. Le condizioni di lavoro erano durissime ma non garantivano sicurezza e benessere materiale: bastavano una grandinata o la siccità, o la pioggia eccessiva a distruggere un raccolto, cioè il prodotto di un anno di fatiche.
Quando pensiamo alla vita “secondo natura” dei contadini non sempre riflettiamo sulla sua dipendenza dal clima e dalle stagioni: era certo un’esistenza meno soggetta all’ansia e all’angoscia suscitate in noi da mille impegni che rendono frenetiche le nostre giornate; e vedere crescere messi e animali grazie alle proprie cure amorose e pazienti infondeva certo serenità. Ma non c’era niente di idillico nel rapporto dei contadini con la natura: c’era un rispetto fatto di amore e di timore che a ben vedere potrebbe ispirare anche il nostro rapporto con la natura. Sembra questo un dato culturale importante, un valore da meditare e forse da recuperare, suggerito dalla conoscenza del nostro passato.
Conoscere le nostre radici è un’esperienza costruttiva, e persino necessaria come, unito alle proprie radici, l’albero può crescere e prosperare, cosi il presente deve guardare anche al passato per prepararsi al futuro.
E la vita contadina era caratterizzata non solo dalle sue condizioni materiali di vita, poco da rimpiangere, come s’è detto, ma da una sua “visione del mondo” che rendeva tollerabili e addirittura perciò accolte con serenità, quelle stesse condizioni.
Sintetizzandone in pochi aggettivi le caratteristiche generali le definirei una visione magico-religiosa e insieme molto concreta.
Il rito accompagnava e sottolineava tutti i momenti importanti della giornata, dell’anno, della vita. C’era un rito per il risveglio e prima di chiudere la giornata, c’erano riti per il lavoro e per la festa, per la nascita e per la morte. Era proprio il rito a conferire all’esistenza quella dimensione comunitaria che oggi rimpiangiamo: si nasceva, si faceva festa, si soffriva e si moriva assieme, perché tutti avevano le stesse credenze e compivano gli stessi gesti rituali prima ancora perché erano fisicamente insieme. Ed erano riti da un lato profondamente religiosi, dall’altro legati da una mentalità magica così scandita nel tempo e nello spazio che alcuni studiosi la ritengono una dimensione insopprimibile della cultura umana. E se questo aspetto dovesse farci disprezzare i nostri padri, sarebbero da disprezzare moltissimi gesti quotidiani che ancora si compiono, dalla lettura dell’oroscopo, a quella delle carte, alle parole di buono e cattivo augurio. Infatti i principi magici sono sempre gli stessi, ed il primo afferma che il simile produce il simile: le parole e i gesti di propiziazione o di imprecazione avevano potere ed efficacia magica. E sempre uguali sono gli scopi dei riti magici che chiamiamo apotropaici o propiziatori: si tratta di prevedere il futuro, allontanare il negativo, assicurare il benessere di singoli o della comunità. Possedere un’identità culturale significa anche possedere la conoscenza di riti secolari, trasmessi da una generazione all’altra e condivisi dalla propria comunità: cosicché ogni contadino, ogni cortile, ogni paese compiva riti magico-religiosi per prevedere l’andamento dell’anno agricolo, per scongiurare il temporale o assicurare la pioggia, per iniziare bene il nuovo ciclo agricolo o stagionale cancellando il negativo passato e preparando la prosperità futura. Nella grande festa di inizio ciclo che la cultura contadina celebrava in date diverse, da Natale a Carnevale, fissato dalla tradizione locale, in famiglia  pubblicamente si celebravano riti che avevano lo scopo di rassicurare la comunità e di renderla più compatta e solidale proprio nel momento più duro e difficile dell’anno, quando le scorte stavano per finire e i campi erano ancora brulli, perciò il raccolto era una attesa più che una certezza.
In Brianza per esempio la grande festa di inizio ciclo era celebrata (ma ora si torna a festeggiarla con crescente entusiasmo, segno forse della nostalgia di cui si parlava all’inizio) l’ultimo giovedì di gennaio, bruciando un fantoccio di paglia chiamato la Giubiana: era l’occasione per le ragazze di propiziarsi il matrimonio, per gli uomini il raccolto, per tutti l’abbondanza. E’ comprensibile che si chiedesse aiuto alla magia, o alla religione, o ancora più spesso ai riti magico religiosi in un’epoca ben poco aiutata dalla scienza e dalla tecnologia.
E va detto che il rito possiede una sua efficacia a livello psicologico perché consolida i legami culturali e sociali che favoriscono la solidarietà, la difesa più efficace della cultura contadina contro il negativo. Non intendendo certo mettere sullo stesso piano magia e religione, non solo perché i contadini erano consapevoli della diversità dei due ambiti ma perché si tratta di due esperienze addirittura divergenti. Eppure, contribuivano entrambe a diffondere e mantenere il modello di comportamento ai nostri occhi della cultura contadina: quello della comunione e dell’aiuto reciproco; valore che del resto le condizioni concrete della vita agricola rendevano addirittura indispensabile alla prosperità del gruppo e degli individui. La magia è, come la religione, una fede in qualcosa di soprannaturale; ma la prima è basata sull’efficacia automatica di riti compiuti dall’uomo; la seconda affida le sue suppliche a Dio che nella Sua Onnipotenza è sempre in grado di esaudirle. E di fronte all’infinita maestà divina il contadino si sentiva spesso troppo piccolo e indegno: di qui il ricorso ai Santi, ai quali egli osava rivolgersi con una familiarità che a volte non aveva nulla di sacro. Il culto attribuito ai Santi era a volte eccessivo e scomposto, così come quello che si raccontava e si credeva sulla loro vita aveva spesso pochi rapporti con la verità storica. In Brianza per esempio si credeva che i bachi da seta avessero avuto origine dalle piaghe verminose di San Giobbe, che per questo era il veneratissimo patrono delle bachicolture. Tuttavia una certa sobrietà e compostezza caratterizzavano le culture brianzole: in Brianza non si arrivava come da altre parti d’Italia a maltrattare i Santi (una loro immagine evidentemente: anche in questo caso il simile è magicamente un sostituto dell’originale) che non esaudiva le preghiere; giacché una caratteristica della nostra cultura di cui andiamo giustamente anche se eccessivamente fieri, e l’ostinata laboriosità che induce il contadino a rimboccarsi le maniche di fronte a qualunque problema, prima di inveire o recriminare, persino di fronte all’evento più negativo che colpisce l’umanità, la morte, la cultura contadina reagiva con grande saggezza, sia la fede religiosa, sia l’esperienza dell’eterno rinascere della natura, insegnavano che non si muore mai del tutto.
E il pensiero della morte non incuteva terrore perché si credeva che essa da inizio a una vita più felice. Solo nella cultura contemporanea alla quale la Brianza si è in gran parte adeguata, perché oggi la tecnologia e i mass-media dominanti su scala planetaria stanno livellando ogni autentica differenza culturale e sostituiscono ai modelli tradizionali altri modelli imposti dall’esterno, la morte è un tema angoscioso da dimenticare. La consapevolezza dolorosa ma serena, ma dell’inevitabilità della morte sembra uno degli aspetti più validi della cultura contadina: il morto diventava così un prezioso punto di riferimento potente come i Santi e più di loro sollecitato dalle persone amate lasciate sulla terra, era invocato in tutte le difficoltà e in tutti i pericoli. Ho raccolto numerosi racconti che testimoniano la fede negli interventi risolutori dei defunti in frangenti in cui era richiesto un aiuto materiale, ad esempio, per liberare un carro impantanato. Era davvero una comunità solida e compatta quella che poteva contare sul soccorso di tutti i suoi membri, compresi quelli apparentemente scomparsi. E questo giustifica la persuasione che un tempo non si soffriva di uno dei mali oggi più diffuso: nel paese tradizionale non esisteva la solitudine, la depressione. E se è vero che la famiglia stessa e la vita dei cortili significavano anche unione, libertà e indipendenza, essi garantivano aiuto e compagnia ai vecchi, ai malati, alle categorie “improduttive” che l’efficientistica società di oggi così spesso emargina.
Il messaggio più incoraggiante che sembra di poter ricevere dalla conoscenza della nostra cultura passata è questo: se vogliamo recuperare alcuni valori, ciò dipende solo da noi, e la riflessione e la conoscenza ci permetterebbero di recuperare quanto di costruttivo e positivo quella cultura ci addita, senza ripeterne le condizioni di oppressione angusta e di chiusura nei confronti di tutto ciò che è nuovo o esula dal ristrettissimo ambito della vita contadina.
©, 2003

 

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