STORIE ANTICHE DI NOVA MILANESE un paese alle porte della terra di Brianza
INTRODUZIONE:
Da una vissuta esperienza personale, una ricercatrice, [1]MARISA CONFALONIERI, di NOVA MILANESE, paese dell’hinterland metropolitano, alle porte della terra di Brianza, ha proposto, in chiave colloquiale e dialettale, episodi e storie di comune esistenza quotidiana, relative a un passato anche autobiografico, ma soprattutto collettivo legato ad una comunità contadina, un passaggio epocale intergenerazionale, specchio culturale della vita contadina dei primi anni del ‘900 in un allora villaggio della periferia milanese, immerso nella campagna briantea. Tali resoconti e spezzoni di vita, narrati in stretto dialetto novese e pubblicati, sparsi, nell’ambito di un bollettino parrocchiale, tra il 1997 e il 1998, sono stati tradotti in italiano corrente per poter mettere a disposizione del materiale storico e didattico, facilmente fruibile anche dalle giovani generazioni che spesso leggono e studiano la storia in modo asettico, distaccato, e privo di interesse, impartito dai libri di storia.
Questi brani possono costituire una riproposta storico/culturale del buon tempo antico, tramite un linguaggio semplice, scarno ed essenziale, in un luogo come Nova Milanese che, da piccolo borgo contadino, si è trasformato, in seguito ai mutamenti socio economici apportati dalla rivoluzione industriale ed al boom economico del dopoguerra, in una delle più urbanizzate aree dell’hinterland milanese. Queste trasformazioni territoriali, che hanno sconvolto l’assetto urbanistico in maniera molto repentina e brusca, hanno naturalmente apportato conseguenze anche negative a vari livelli sociali, comportando anche sul piano socioculturale, soprattutto a seguito degli intensi flussi e fenomeni migratori dal meridione d’Italia, purtroppo, inizialmente, non supportati da politiche d’inserimento e d’accoglienza, un inaridimento e in certi casi un diffuso disagio del tessuto sociocomunitario. Tali fenomeni di trasformazione sociale hanno coinvolto le aree settentrionali, maggiormente influenzate dal sentore di cambiamento indotto dalle rivoluzioni dei mezzi di produzione di massa, per cui la società contadina è andata sempre più rimpinguando il nuovo ceto operaio nascente.
La vita quotidiana in paese…
Primavera – Estate 1920. Nonna Costanza di Nova Milanese ci racconta… che all’età di otto anni lei e la sua famiglia abitavano a Grugnotorto nel cortile di Pruserp (Proserpio) con le famiglie di due fratelli del papà, gli zii Vitori e Ricoo.
In primavera, di buon’ora, prima di iniziare la scuola nonna Costanza portava i polli e le galline in campagna utilizzando una “cariola” (carretta) di legno, con le fasce laterali in rete. Durante il giorno i polli vivevano liberi in campagna, ed era una faticaccia per nonna Costanza recuperarli la sera per riportarli a casa, in quanto questi scappavano sempre da tutte le parti ed erano insensibili ai richiami (pio, pio, pio) che la nonna ripetutamente lanciava loro. Molte volte dopo questo viaggio a “fò” (in campagna) doveva recarsi anche alla tessitura BRIANTEA per prendere i teli in spugna che la sua “mam” (mamma) Pierina lavorava a casa durante le ore libere (come facevano molte donne del nostro rione). Di corsa poi verso la scuola di via Roma (l’unica a quei tempi) con gli zoccoli ai piedi; che molte volte toglieva per correre più velocemente ed arrivare puntuale alla lezione.
Nel pomeriggio dava una mano a togliere le erbacce, ma senza lasciarsi mancare la scappatella veloce alla roggia per “puccià i pee” (bagnarsi i piedi).
Tutte le sere nel mese di maggio, con la propria sedia o i “sgabelit” (piccoli sgabelli) che portavano da casa, si riunivano tutte le famiglie di Nova Milanese di quel rione davanti all’affresco della Madonna di Caravaggio dove la Rosa di Mavar (Rosa Mauri) iniziava a sgranocchiare il suo rosario seguita dalla cantilena dei regiù (capi famiglia) e delle donne. Quando poi l’estate arrivava, oltre al caldo portava con sé tanta gioia, canti, fiori, profumi e tante lucciole, ma soprattutto tanto e tanto lavoro.
Com’è bello ricordare – continua nonna Costanza – le distese di grano maturo misto a coloratissimi papaveri e fiordalisi; e si sentiva per i campi e le vie un profumo costante di fieno. Su l’era (aia) di ogni cortile, i bambini a piedi nudi entravano nel grano sparso ad asciugare al sole e formavano dei grandi cerchi rimuovendo costantemente i chicchi: anche se poteva sembrare un gioco perché era accompagnato da canti e scherzi in realtà era un lavoro utilissimo.
Altra tappa significativa a Nova Milanese era la “sluasada” (spannocchiatura del grano).
Tutti insieme nei cortili con montagne di pannocchie da sluasà dividendo il granoturco, dalla barba e dai luit; alla fine del lavoro stanchi ma soddisfatti si festeggiava mangiando la “bogia” (un tipico salame) e bevendo un bicchiere di vino mentre i bambini nel grande cortile rincorrevano le lucciole cantando la solita filastrocca… lucciola, lucciola vien da me ti darò il pan del re, ti darò il pan della regina lucciola, lucciola, lucciolina.
Sempre in estate veniva effettuata la gara della “motta del furment” (i covoni) e logicamente veniva premiata la motta più compatta e più grande.
La festa più significativa per Grantort era senza dubbio la festa dell’Assunta del 15 agosto; coi carri arrivavano dai paesi vicini gli amici e i parenti per fare festa, c’era la musica e si mangiava l’inguria (il cocomero) e la turta de lat (torta di latte).
I portoni di tutti i cortili venivano addobbati con fiori di carta e nastri colorati. Tutti con il vestito “buono della domenica” i regiù in giacca, gilet e farfallino; le donne con i loro lunghi vestiti di cotonina dai grandi colli bianchi ricamati, figli al seguito, andavano in chiesetta per la Santa Messa dove il parroco don Mezzera elogiava dal pulpito le opere e i miracoli di San Grato. Alla sera nella piazzetta antistante la chiesetta veniva allestita la cuccagna dove i baldi giovani si cimentavano per poter dimostrare soprattutto ai “tusan” (le ragazze) la loro abilità e la loro forza; il premio per il vincitore era quasi sempre il salame. “Bei tempi!” – dice sospirando con una punta di nostalgia nonna Costanza – “tempi dove tutti avevano poco denaro ma tutti avevano da mangiare, ed eravamo felici perché ci aiutavamo gli uni con gli altri.”.
NONNA COSTANZA ANCORA RACCONTA…
A quei tempi la nostra vita e tutti i nostri lavori erano legati alle stagioni, ecco che l’autunno serviva per prepararsi all’ inverno che ai miei tempi era lungo e freddo.
In casina (in cascina) venivano riposti i margash (pianta del granoturco) da bruciare nel camino per cucinare e riscaldare la cucina; servivano anche da bruciare “in da la furnela”” (grosso recipiente in rame rivestito in muratura) che si trovava in un angolo del cortile, dove la mam Pierina scaldava l’acqua e cucinava “Il mangia’ di besti” (il cibo per il bestiame).
A noi bambini veniva dato il compito di raccogliere gli ultimi frutti, noci e uva in campagna.
A fò (campagna) l’autunno era molto triste e spento, il canale e le rogge erano vuote; le rubinie, i platani e i grossi murun (gelsi) non avevano più le foglie, la nebbia avvolgeva tutto; i rumori dei carretti, i canti e il vociare dei bambini che avevano animato tutta l’estate non si sentivano più, anche la campagna tutt’attorno era spoglia a parte qualche appezzamento di verze (che servivano per cucinare la casola durante l’inverno). In quel periodo venivano svuotate “le ruere” (fosse contenenti i rifiuti) per concimare i terreni prima dell’ aratura. Per noi bambini era anche questo un avvenimento da non perdere e mi ricordo che un anno mentre pa’ Pepin e i suoi fratelli svuotavano “la ruera” un bambino è caduto nel letamaio e ci siamo divertiti a prenderlo in giro per un paio di giorni. Bastava poco per divertirci! Anche quando andavamo al mulino di Muggiò con il “regiù” (capofamiglia) stipati sul carretto fra sacchi di iuta colmi di grano da macinare per noi era un viaggio, un’avventura che aspettavamo tutto l’anno.
Due personaggi dell’infanzia che ricorda con un po’ di nostalgia sono lo spazzacamino, tutto nero con i suoi attrezzi sul braccio e sulla spalla, che arrivava da un paesino della Valle d’ Imagna (Bergamo). E noi bambini ascoltavamo quell’ometto tutto nero che ci raccontava di questo paese a noi sconosciuto, dove c’erano le montagne. L’altra persona era “ul magnan” (il rnagnano, lo stagnaro) che con una vecchia carretta colma di pentole e pentoloni da aggiustare girava di cortile in cortile con un codazzo di bambini al seguito che gridavano con lui “don ghe chi ul magnan” (donne c’è lo stagnaro).
In inverno c’erano delle bellissime nevicate, strade e campi ricoperti di neve bianchissima, senza fango: al limite si vedevano le impronte degli uccellini. Molte volte come merenda mettevano nella scodella la neve con un po’ di zucchero e un goccio di caffè dei “due vecchi” oppure succhiavamo i ghiaccioli che scendevano dai cornicioni e dalle grondaie; anche i giochi erano condizionati dalle stagioni, non giocavamo più alla corsa dei cerchi o ai bottoni e ai “ciapei” (raccogliere pietre o pezzi di ceramica delle tazzine o dei piatti rotti), ma giocavamo a palle di neve alla scarligora (si scivolava lungo il ponte sino ad arrivare in piazzetta) e i maschi mettevano i “saltarei” (trappole per prendere gli uccellini). Considerato che d’inverno faceva molto freddo la mia mam (mamma) mi metteva “ul gipunin” (maglia di lana a maniche lunghe molto pesante), “i mudand de lana” (mutande di lana), “la soca de lana” (sottoveste di lana) e i “calzetuni” (calze sempre di lana pesante) mentre noi bambine quando andavamo a scuola oltre alla sciarpa mettevamo “ul panet” <foulard di lana>. Solo gli uomini avevano “ul tabar” (un mantello a ruota solitamente nero o marrone scuro) e le donne avevano “ul scialet” (uno scialle sulle spalle> e “ul panet” de lana. Quando, tornavo da scuola passavo a salutare la mia nonna Richeta (Enrichetta) che abitava in”curt dal Puras” (cortile dei Pulici, davanti alle scuole di Via Roma) e mi dava un bel bicchiere di acqua calda della “caldereta” per scaldarmi.
Le giornate più attese erano sicuramente il 24 Dicembre e il giorno di Natale: in casa tutte le donne avevano un gran da fare fra pulizie e preparare da mangiare. Noi bambini preparavamo un presepe con statuine di gesso, che a quei tempi erano molto grandi, facendo attenzione a non romperle. La vigilia di Natale gli zampognari percorrevano la via principale di Nova fino a Grugnotorto suonando le loro nenie e i bambini cantavano questa filastrocca: “piva piva l’oli d’ uliva, gnaca gnaca l’oli che taca, il e’ ul bambin che porta i bele’, le’ la mam che spend i dane’”. Ma i nostri doni erano sempre gli stessi; per me e mia sorella Angelina la bambola de “peseu o pigotta” bambola di pezza) fatta dalla zia Maria per tutte le nipoti. La delusione per i regali che non cambiavano mai durava comunque poco perché quel giorno si potevano mangiare tante cose “ul risot cun la luganega” (risotto con salsiccia), l’oca ripiena e “ul capon” (il cappone). Nonna Costanza ricorda che un Natale lei, il fratello Dante e alcuni bambini del cortile scontenti dei soliti regali avevano pensato di fare con la neve “un berin” (una pecorella); ultimato il lavoro decisero di portarla nella stalla perché ” altrimenti avrebbe preso freddo, così fecero e tutto il lavoro di un pomeriggio si sciolse in pochi minuti con qualche pianto dei più piccoli.
La stalla era un punto di ritrovo per tutte le persone del cortile: ci si ritrovava alla fine della giornata, per recitare il Rosario, dopodiché le donne ricamavano e cucivano, mentre le ragazze ricamavano “la dota” (le lenzuola e le camicie da notte). I bambini ascoltavano a bocca aperta i racconti e le storie vissute che qualche nonno raccontava, tra i nitriti dei cavalli e qualche “rumoraccio” delle mucche. Poi di corsa in camera a dormire in uno stanzone che chiamavamo la “giasora” (ghiacciolo) tanto era fredda. Il ghiaccio riusciva a ricamare sui vetri tanti ghirigori bianchi che sembravano merletti e quando si spegneva la fioca lampadina brillavano come le stelle.
Ecco il racconto dell’infanzia di nonna Costanza finisce con queste pagine che hanno voluto raccogliere, senza grandi pretese, una parte di vita che sicuramente hanno vissuto anche i nostri nonni e i nostri genitori: vita semplice ma serena e bella anche se sicuramente non sono mancate difficoltà, malattie e dolori come in ogni esistenza e in un qualsiasi periodo.
Dopo Il Santo Natale, la Festa della GIUBIANA
Alla fine di Gennaio e precisamente l’ultimo giovedì del mese era tradizione festeggiare la Giubiana o meglio conosciuta come la Giobia.
I primi giorni dell’ultima settimana formavamo delle vere e proprie bande di bambini: i più piccoli venivano “reclutati” per raccogliere nei cortili e nelle stalle tutto il materiale da bruciare: la paia, i strasch, i luit, i bastunit, e un quai foi da carta (la paglia, gli stracci, le pannoccbie, i bastoncini, e qualche foglio di carta) mentre i più grandi andavan a fò a rubà i margasch (andavano in campagna a rubare le piante essiccate del granoturco). Aspettavano appostati per ore, senza far rumore, che i contadini andavan a ca ‘ a scena’ (andavano a casa per la cena) e poi facevano man bassa.
Un anno, mi ricordo, che alcuni ragazzi della nostra compagnia sono stati scoperti e intant che eran in dal casinot a tira su ‘i margasch le riva ‘ul Salvatur dal Ghes e in sta sarà dentar (mentre raccoglievano le piante di granoturco è arrivato il contadino Salvatore Ghezzi che prontamente li ha chiusi nel capanno).
La paura era tanta perché le ore passavano, stava ormai calando la sera e non trovavano una via d’uscita, ma soprattutto pensavano alle botte che avrebbero preso dalle mamme al loro rientro a casa. Ma queste bravate erano ben motivate perché la festa prevedeva di bruciare la Giobia, un grosso fantoccio di paglia ricoperto di stracci, che rappresentava per grandi e piccini un’ azione propiziatoria. Con la Giubiana, in effetti, si bruciavano tutti gli elementi negativi dell’annata lasciando così libero spazio agli elementi positivi che la nuova stagione avrebbe portato a tutti i contadini. Anche i bambini si vestivano di stracci e vecchi scialli, in cerchio attorno al grande falò cantando filastrocche e vecchi canti… tutti con il naso all’insù per seguire i barlisch (le fiamme) che scoppiettando salivano verso il cielo. Quelli erano i nostri fuochi d’artificio!!
Cal di lì sa dueva mangia’ ul risot, se no i muschit, d ‘estaa, ta’ mangiavan i och. (Quel giorno si doveva mangiare il risotto altrimenti in caso contrario i moscerini, d’estate, ti avrebbero mangiato gli occhi).
Per gli adulti mangiare in quel giorno il risotto con salsiccia significava fecondità e abbondanza per tutto l’anno.
Di questa tradizionale festa purtroppo si è persa ogni traccia… nel nostro rione e nei paesi limitrofi il tradizionale falò è stato successivamente, col passare degli anni, legato a Sant ‘Antoni dal purcei (S. Antonio del maiale, protettore di tutti gli animali e delle stalle) che viene festeggiato a metà gennaio e precisamente il giorno 17.
Prima della Giubiana, il Santo Natale
Quella mattina c’era un po’ di trambusto nello stanzone, al primo piano, della nostra casa
Io ero già sveglia e vedevo la mia mam (la mia mamma) che si avvicinava al letto dei mei fredei (miei fratelli) e sottovoce scuotendoli leggermente diceva loro: su nem bagai lè ura da luasu par andà a la nuena (su ragazzi è ora di alzarsi per andare alla novena). Sono scesa anch’ io nella grande e buia cucina, faceva un gran freddo ma volevo andare alla novena di Natale come facevano i grandi.
Uscita da casa mi sono accorta che tutte le cucine del cortile erano illuminate, c’era molto buio fuori ma forse per l’aria fredda o forse per questa insolita uscita alle cinque del mattino mi sentivo una strana allegria addosso e non vedevo l’ora di arrivare in chiesa per scoprire cosa sarebbe successo.
Per strada l’era quasi una prucesiun da don (per la strada era quasi una processione di donne) tutte silenziose e strette nei loro lunghi scialli di lana neri e cul paneti in coo (con il fazzoletto di lana in testa). Nonostante il freddo pungente la mia andatura era piuttosto lenta: volevo fermarmi ad ammirare quegli strani alberi che costeggiavano il canale: erano spogli ma nell’ insieme magici, avevano delle strane decorazioni: ho scoperto in seguito che non erano altro che delle ragnatele che la brina rendeva bianche e argentate, e la mia mamma per non perdere ul frot di don (il gruppo di donne) ogni tanto la ma dava un quai strapun (mi tirava il braccio) per sollecitare la mia andatura. Il parroco con un grosso librone in mano e attorniato da un gruppo di chierichetti insonnoliti stava finalmente iniziando la funzione e io con tutta la mia curiosità da soddisfare mi misi a… dormire!
Per la novena di Natale noi bambini dovevamo fare i fioretti: pregare, e aiutare di più la mamma a curare i fratelli più piccoli e a pulire la casa.
Per pulire le pentole usavano la scendra e l’oli di gumbat (la cenere del camino e la forza delle braccia) Per lavare i bambini si riempiva ul mastel (una grossa tinozza di legno che serviva per il bucato) e la mamma cun la spaseta la gha netava i genoch (con la spazzola puliva le ginocchia dei figli).
Durante 1′ avvento passavano ancha a l’ura a benedìi caa (passavano per la benedizione delle case) venivan ul sciur Curat, i cereghet e i du fabricier cui sachet par ritira ul furment e ul furmentun (venivano il parroco, i chierichetti, e due laici che ritiravano il frumento e il granoturco come offerta).
Invece del denaro, si offrivano infatti i prodotti della nostra terra, frutto del nostro lavoro, che successivamente veniva venduto per ricavare il necessario per le spese della parrocchia.
La vigilia di Natale, prima di coricarci, io e i miei fratelli mettavano gli zoccoli sul scoss da la finestra (sul davanzale della finestra) e al mattino (secondo le possibilità dei genitori) trovavamo dei mandarini, noci, spagnolette, torroncini e il croccante: un Natale poi avevo trovato un bel paio di zoccoli nuovi comperati dal PAULIN DI LUF (un ciabattino di nome PAOLO e LUF che significa LUPO era il soprannome della sua famiglia). Noi bambini il giorno di Natale andavamo alla Messa delle 10 in da la Geseta da Grantort (nella Chiesetta di Grugnotorto) mentre i nostri genitori andavano in Gesa Granda (Chiesa Parrocchiale) i don cul vel in coo a sinistra e i oman a destra (le donne sempre con la testa coperta dal velo si sedevano a sinistra dell’altare e gli uomini a destra). Per pranzo un bel capun e l’anadra a roost cun un po’ da patati (un cappone e un’ anitra arrosto con contorno di patate), mentre dopo il pranzo si andava per tradizione al cimitero vech (il cimitero di via Rimembranze). La sera di Natale tutti in stalla per la recita del rosario e po sa racuntavan i bamban e sa cantava i cansun dal Banbin (si raccontavano fiabe e si cantavano le canzoni di Gesù Bambino). I regiu (i vecchi) fumavano il toscano o la pipa sotto i grossi baffoni e c’era chi il tabacco lo masticava; ma tutti, proprio tutti, la sera di Natale beveven un po’ de bucer da vin bun e bei cuntent e alegher andavan a durmi! (bevevano un po’di bicchieri di vino buono e contenti e allegri andavano a dormire)!
Storie di famiglia…
L’era una bela giurnada da gènar dal 1908, quant la Speransa di Barucana e ul Giulin di Pulidor a sin spusa. Lè vera ca ghe ul det ca dis: “duu cor.. ‘, ma par lurduu incumincia la vita matrimuniai cun un sac da cor parchè in andà a viv in caa dal Giulin in duè ca ghera: la mam Carulina, restada veduva giuina, po gheran i duu fradei marei: Talo e Carlin, e ul Giuanin cun la miee Maria e i sò bagai: Giusep, Rosa e Neta.
In una assolata, ma fredda giornata di gennaio del 1908 Speranza Mariani dei Barucana e Angelo Parma di Pulidor iniziano la loro vita da sposi.”Due cuori e una capanna” solitamente si dice! Ma loro dì cuori ne trovarono un bel po’ nella famiglia di Angelo dove andarono a vivere. C’erano: la mamma Carolina rimasta vedova in giovane età, i due fratelli non sposati Natale e Carlo, il fratello Giovanni con la moglie Maria e i tre figli: Giuseppe, Rosa e Annetta. L’era propri una gran famiglia, vivevan un po’ sacrificaa ma tuc insema serenament; i tre dòn sa vutavan e quant Speransa la veniva a caa dopu la giurnada da laurà in filanda la vutava la Mariet a curà i bagait e prepara la scèna; ul Giulin quant al rivava da la Briantea andava a fò a vutà i fredei. A la fin da Nuember da stess ann in caa stavan pù in da la pel da la cuntentesa parchè è nasù un bel bagai che la Speransa e ul Giulin han vurù metic in nom: Mario. In dal 1910 ecù ca riva anca una bela tuseta e la ciaman Maria ( a là ciapa ul nom da la Mariet parchè l’era la sua ghiasa).
Vivevano tutti insieme serenamente nella grande cucina, aiutandosi vicendevolmente sopratutto le tre donne, Speranza che lavorava fuori casa al suo rientro dava volentieri una mano alla cognata ad accudire i figli e preparava la cena per tutti; mentre Angelo, al suo rientro dalla Tessitura Briantea (dove faceva manutenzione ai telai) andava nei campi ad aiutare i fratelli. Alla fine del mese di Novembre dello stesso anno Speranza e Angelo conoscono la gioia di diventare genitori con la nascita di un bel maschietto di nome Mario; nel 1910 un’altra nascita allieta la famigliola una bimba che chiamano Maria (come la zia che le ha fatto da madrina).
La Speransa e ul Giulin sa truavan ben cun i fradei e la cugnada ma ades che la famiglia la sera ingrandida sentivan ul bisogn d’avec un pustisin tut par lur e i sò bagait. In riusii a trua una bela stansa granda taca a la Geseta; dal dì vivevan tuc insema in curt di Marelit e a la sera ciapavan i sò bagait in brasc e andavan a durmì in curt granda.
A serum in dal mes da Mach dal 1911 e la Speransa la parturis una bela tuseta biunda e cun i och dun celest cume la vestina da la Madona, l’era propri bela! Ghan metù in nom: Richeta.
Speranza e Angelo ora che la famigliola era cresciuta sentivano forte l’esigenza di un loro spazio dove poter parlare, discutere e vivere le loro piccole gioie. Trovarono una grande camera vicino alla Chiesetta, così di giorno vivevano tutti insieme nel cortile di Marelit in via Caravaggio e alla sera, con i loro figli in braccio andavano a dormire in curt Granda in via Assunta.
Nel mese di maggio del 1911 Speranza dà alla luce la loro terzogenita. E’ una bellissima bambina bionda con grossi occhi azzurri di nome Enrichetta.
Anca la Mariet dopu un po’ da mes la gha vù una bela tuseta: Carulina. (Ghan mis ul nom da la nona morta un para d’an prima). Lapora Mariet dopù un mes dal parto a la mor da setticemia, una vera disgrasia! La Speransa, che alura la ghera dumà vinticincuann, ultra al grand dulur parche’ la perdù non dumà la cugnada ma bensì una grand’amisa, la see truada in su i spal sett bagaj, duu da quei infasa, e quatar oman. Sta dona la sà perd no d ‘anim, la volta indree i manigh e cun grand sacrifisi, ma cun tantu amur la porta avanti tuta la famiglia; sicur ca la gha no temp, la sua giurnada la incumincia quant lè anmò scur e la flnis a mezanot pasada. I tusanet magiur davan una man, anca i oman cercavan da rangias un po’ da par lur par vutà sta pora spusa ca la cercava sùra tut dàfà sentì men ca lera pusibil la perdita da la mam ai quatar bagait. Anche la cognata Maria qualche mese dopo partorirà una bella bambina di nome Carolina come la nonna paterna, morta qualche anno prima. Maria purtroppo dopo un mese dal parto muore lasciando a Speranza il grave compito di accudire anche i suoi figli. Speranza, con un grande dolore nel cuore per la perdita della cognata ma sopratutto di una amica, armata di grande spirito di sacrificio e tanto amore si trova ad accudire sette bambini, di cui due piccolissimi, e quattro uomini; certo per lei la giornata inizia all’ alba e termina a notte inoltrata, ma con l’aiuto e l’affetto dei componenti della famiglia riescono a far superare ai quattro fratellini questo periodo difficile. Pasa un para d’ann e ul Giuanin al ciapa miee un ‘altra volta:al spusa la Gustina ancà le veduva cun una tuseta da nom Ema. Par Giulin e la sua famiglia lè rivà ul mument da trasluca e van a fà la caa taca a la cuperativa da Sant Grà, visin al canal; anca se ul penser da la Speransa lera sempar ciapa dai sò neudit. In dal 1913 a nàs ul Broos, in dal 15 ul Sandro e in dal 1917 la Ines. In ann propri brutt, ann de guera e da epidemii; ul Sandro e la Ines a gha moran da spagnola in dal stess dì, serum in dal 1918, vùn al ghera tre ann e mes e la tuseta vun e mes, ul Giulin lera in guera. Quanta disperasiun par la Speransa! Due anni dalla scomparsa di Maria, Giovanni decide di risposarsi. Sposa Augusta anch’essa vedova con una figlia di nome Emma. Speranza e Angelo capiscono che è tempo di trasferirsi nella loro casa costruita vicino al Circolo S. Grato; rimanendo comunque molto legati alla famiglia d’ origine, ma in particolar modo ai quattro nipoti. Nascono nel frattempo Ambrogio nel 1913, Sandro nel 1915 e Ines nell’ anno 1917. Sono anni molto duri, c’è la guerra e ci sono epidemie e la loro famiglia (come molte altre) conosce il pianto per la perdita di Sandro e Ines morti nello stesso giorno di spagnola, il maschietto aveva tre anni e mezzo e la bimba uno e mezzo. Eravamo nel 1918 e Angelo si trovava in guerra.
A mach dal 19 nàs la Pina, pareva quasi un segn da rinascita dopu tanta distrusiun cun guer e malatii, non duma mort… la vita la cuntinua e vidè cal fagutel par caa al dà anca mò la voia da viv, da andà avanti. Sempara Mach dal 1928, a quarantaduann Speransa la mèt al mund nà tuseta bela e bona da nom Ines e sà trasferisan in una caa nova in via Assunta. Quanta sudisfasiun par ca la caa lì! Bela granda, gha stavan tuca la larga, un bel ort cun i piant da fruta, l’era par ul furmentun e una bela terasa; d’ adrè da la caa ghera la stala, ul stabiel, ul pulee e una bela furnela granda. Tuc han fà gran sacrifisi e anca i bagai magiur andavan a laurà e la Speransa a caa la faseva i frans. Ma nè varu la pena parchè ca la caa lì par ul Giulin e la Speransa le sempar stada un punto in duè sa ritruavan tuc i fieu sia spusà che non, e tuc i neudit. Sentì la caa ca la viveva parchè i bagait fasevan bacan, ridevan, giugavan curevan deni e fora dal curtil ai duu noni gha sa riempiva ul cor da la cuntentesa e tuc i sacrifisi in un moment a gheran pù. Nel 1919 nasce Giuseppina, una ventata di gioia, un segno di rinascita per una famiglia, che come tante altre, cerca di uscire dalla desolazione e dalle distruzioni della guerra. Nel 1928 Speranza all’età di quarantadue anni partorisce l’ultimogenita Ines.
Si trasferiscono nel frattempo in via Assunta dove hanno costruito una casa grande per tutta la famiglia, è una grande soddisfazione! Tanti sacrifici e tanto lavoro anche per i figli e le figlie maggiori hanno permesso questa costruzione completa di terrazzo, orto con tante piante da frutta, un grande cortile, la stalla e il pollaio. Questa casa è stata per Speranza e Angelo un punto d’incontro con i loro figli sposati e non, e con tutti i nipotini. Il loro vociare, le loro grida e i loro giochi riempivano i nonni di felicità e li ricompensavano dei tanti sacrifici fatti per costruirla. UI Giulin a lè mort sesantunann da polmonite e, la Speransa la gha vù lafurtuna da stà chI fin vutantann a vidè e a cress tuc i sò neudi.
in da la vita sti duu gent da proeuv ghanan vù tanti fra malatii, lut e guer e ghan lasa un segn pruffund, però anca par lur duu la fèd e i pater in sta un gran sustegn a tuc i prublemi e i suféerens pasa.
Angelo è stato stroncato da una polmonite all’età di sessantuno anni mentre Speranza è morta all’età di ottant’anni avendo così l’opportunità di vedere e di allevare i suoi nipoti. Le prove, fra malattie lutti e guerre, sono state tante, profonde e incisive, ma anche per Speranza e Angelo la fede e le preghiere sono state la soluzione alle loro angosce e alle numerose sofferenze passate.
Inturno ai ann 1926-1928 par la famiglia BERETTA la Pruvidenza là propri bufà giò a meraviglia ul guadagn di cavalè la rendù ben e insci han pudù cumpra i caa e ul teren due prima ghera la Cuperativa S.Antonino – Circolo San Grato a Grantort.
(Nel biennio 1926-1928 la Famiglia Beretta è riuscita con il lavoro dei bachi da seta a raggranellare un bel gruzzolo di soldi permettendogli finalmente di acquistare casa e terreno dove inizialmente c’era la Cooperativa S.Antonino – Circolo San Grato).
I quater fradei, Ernest, Vicens, Stevanin e Carlin cun i soo don e i bagait, ul pa’ Ricu e la mam Virginia che nà pudevan pu da ves sota padrun, stavan pu’ in da la pel da la cuntentesa da laurà finalment in propi.
Ul sciur Curat da Burac, cal cugnuseva ben la storia da la famiglia, al ga stava a dac ul teren da la gesa pur da fai resta lì; vist e cunsidera ca eran brava gent da fed, cun principi sàn. Ma urmai eran tuc decis da andà a Grantort, ul post al ghera propi piasu: ghera un bel toc da tera, tanti piant da fruta, do stal, la ca’ par tuc, ul magazin par met i sac da furment e furmentun: l’era bela granda e ghera parfina una fupeta par fà bagna i pee d’estaa ai bagaj. L’unica preocupasiun da la mam Virginia a l’era ul canal cal cunfinava propi cun la sua tera e cun tuc i bagait ca gheran bisugnava stac a dree par curai. E pensaa che sta pora dona la fà nanca in temp a viv lì in da la sua caa, parchè un para da mes prima da trasferis a le morta.
(I quattro fratelli Beretta: Ernesto, Vincenzo, Stefano e Carlo, le loro moglie e i figli, il padre Enrico e la mamma Virginia erano molto contenti dell’ acquisto fatto e si sentivano finalmente liberi dal “padrone”. Il parroco di Burago, loro paese natio, ha cercato con tutti i pretesti di trattenerli proponendogli infine anche il terreno della chiesa; erano parrocchiani validi, disponibili e di sani principi e dispiaceva che lasciassero Burago. Ma tutta la famiglia era decisa e a tutti, ma sopratutto a mamma Virginia, era piaciuta la nuova proprietà: c’era un bel pezzo di terreno, tanti alberi da frutta, due stalle, una casa grande sufficiente per tutti, un bel magazzino capiente per riporre i sacchi di frumento e di granoturco, un aia molto grande e c’era persino una pozza d’acqua dove i bambini d’estate si rinfrescavano i piedi. L’unica preoccupazione per Virginia era il canale Villoresi che confinava con la loro proprietà: perché i bambini avrebbero dovuto essere sorvegliati costantemente. Ma la donna non ha potuto sorvegliare i nipoti perchè due mesi prima del trasferimento a Grugnotorto è morta).
A sa laurava dur, dì dopo dì, ma tuc insema sa’ superava tuscos. Ul Carlin la trua un bel post da laurà alla Montecatini da Cesan Madernu e vist ca l’era distant un bel po’ da chilometar al veniva a caa una volta a la setimana par sta cun la famiglia e vutà i fradei. UI ziu Francesc, fradei dal pa’ Ricu, a l’era un marel e al viveva anca lù cun la famiglia: par ciapà un quai ghel al laurava in caa, sul telar, parchè al sera fa’ maa a unpe e al pudeva no laurà la tera. i do stal eran pien da besti: cavai, buscit, nanzet vac e purcei: a la matina prest vers i quater e meza a sa svegliavan tuc, foravia che i bagaj, par regulai. Ga sa dava da mangià, sa cambiava la paia, sa mungeva ul lat che po’ al sa vendeva. Gain, puresit cun la pita, galet och, anadit, pui, gait e una quai mericanela tuc in gir par l’era. Ghera da laurà la tera, l’ ort e stac a dree ai piant da fruta; par i prim ann po’ lauravan anca i cavale parchè rendevan ben. Lauravan tut ul dì, fin quat andava giò ul sue e ghera scur. Tut ul dì e tut i dì da la setimana: a ghera no la setimana curta alura
(Lavoravano tutti duramente, ma insieme si superava tutto anche la fatica. Carlo aveva trovato un posto di lavoro alla Montecatini di Cesano Maderno, a pochi chilometri dalla suo paese, ma tornava una volta alla settimana perché l’unico mezzo di trasporto a sua disposizione erano le proprie gambe. Con loro viveva anche lo zio Francesco, fratello del padre Enrico, non sposato, che tesseva in casa perchè non poteva camminare e voleva comunque aiutare economicamente la famiglia. La sveglia per tutti gli adulti della casa era alle quattro e mezza del mattino perché il bestiame nelle stalle: cavalli, vitelli, mucche e maiali andavano sistemati. Gli davano da mangiare, cambiavano la paglia, si mungeva il latte da vendere. Galline, pulcini con la chioccia, galli e galletti, anatre, oche e tacchini animavano l’aia. Bisognava sistemare l’orto e le piante da frutta e per i primi anni si lavorava il baco da seta perchè venivano retribuiti bene; si lavorava sino a quando il sole tramontava e questo succedeva tutti i giorni della settimana, purtroppo non esisteva a quei tempi la settimana corta!)
A la sira po’, dopu un bel piatun de pumia e da pulenta sa andava tuc insema in stala a di ul rusari: intant i don fasevan i scalfit e mendavan e i tusan ricamavan la dota par spusas; i oman parlavan fra lur dal temp e di laura da fà ul dì dopu. Serum in tanti, tuc prunt a vutas, i besti e ul regoeui rendevan ben, l’era una bela sudisfasiun, supratut par la Rosa ca l’era la re giura e i ‘Ernest ul regiù:
amministravan a duer i dané e i spes par tuc, sa viveva in armunia tuc insema giuin e vècc. Cuntent de poc, bastava un nient una cansun, una ridata però serum cuntent!
(La sera poi, dopo un abbondante piatto di pane giallo con acqua e grasso di maiale – piatto tipico brianzolo – e un piatto di polenta andavano in stalla per la recita del S. Rosario; mentre le donne rammendavano e sferruzzavano, le ragazze ricamavano lenzuola e tovaglie per la dote e, gli uomini programmavano i lavori del giorno successivo. Erano in tanti, tutti pronti ad aiutarsi, si viveva in armonia tutti insieme giovani e vecchi. Bastava poco per farli contenti, anzi un niente: una canzone, una risata ed erano contenti).
I negozi di Nova Milanese…
E si, a gheran si!!!! i butec in dal noster riun inturno ai an1920-1930: ghera gemò ul circul de San Grà, che l’era anca ul sciustrè; e quel al ghè anca mo’ al dì din co’, anca se le sta gemò ristruttura.
Po ca dava in su la via Assunta, in da la curt di Marei, ghera la pusteria dal Nuè: la ghera tut un pergula dadre da la butega. I oman quant venivan a ca’da lauraa, vers sera, sa fermavan a bev un bucer de vin; dentar ul dì invece safermavan i furestee a mangia.
La dumeniga, dopo mesdì, sia al circul che in dal Nuè ghera baldoria: sa mangiava pan e salam, o la panseta, sa beveva, sa cantava a cumpagnà da la fisarmonica e sa giugava ai boc e a la murra. Invece a to ul pan, tuc i dì, s’andava al tram in da la Dunzela.
(Si c’erano i negozi nel nostro rione, in quegli anni esisteva già il Circolo San Grato, che vendeva anche il carbone e la legna, ed esiste tuttora anche se nel frattempo è stato ristrutturato. In via Assunta si affacciava l’osteria-trattoria del Sig. Noè, all’interno del cortile dei Marelli, sotto un pergolato d’uva, c’erano dei tavolini dove gli uomini alla sera, dopo il lavoro, si fermavano per un bicchiere di vino. Durante il giorno si fermavano a mangiare gli ambulanti o le persone di passaggio. La domenica pomeriggio le due osterie erano gremite di uomini che cantavano accompagnati dalla fisarmonica, mangiavano pane e salame o pancetta, si beveva e si giocava a bocce o alla morra. Ad acquistare il pane si andava, tutti i giorni, in Via Garibaldi nel panificio della sig.ra Donzelli).
Subit dopu la guera,…. la segunda, la Luisina dal Rasmu la dervì ul so tabachè davanti a la Geseta, e a la ‘festa” a rivava da Bulaa ul caramelat: cun la sua cesta in sul brasch al vendeva i crucant, i zabesi e i caramei. (Negli anni 47-48, dopo la guerra, la sig.ra Luigina moglie di Erasmo Marelli apre la tabaccheria davanti alla chiesetta e la domenica pomeriggio arrivava da Bollate un signore che vendeva croccanti, liquirizie e caramelle).
A dila propi tuta, i butec in Grantort han incumincia a vesic inturnu ai an 50-60, alura si ghanera una sfilza! Anca parchè in dal 1951 è rivaa una pel de Veneti. Rivavan sti por gent sensa pu’ una ca ‘ dopu 1 ‘alluviun del Polesine; e cun tuc sti person in pù ul noster riun lè radupia. I ca’ cresevan cume func inturnu ai curtil e insci se crea i vii: via e v. lo Caravaggio, via Colombo, via Caboto, v. lo San Grato, via Vespucci, via Alfieri (i prim Ca’ da la via) e via Mazzini (supranuminada la corea>. Chi pudeva no fa i ca’ in stà un po d’an a viv sota i casinot. (I negozi negli anni 50-60 erano parecchi nel nostro rione: forse per il boom economico alle porte, forse anche dovuto al fatto che nel 1951 dopo l’alluvione del Polesine si erano trasferiti nel nostro paese molti veneti con le loro famiglie raddoppiando così la popolazione. Chi aveva la possibilità costruiva la casa, altri non avendo mezzi a disposizione si accontentavano di cascine e capanni in attesa di tempi migliori. Nascono così le prime vie di Grugnotorto e la via Mazzini viene denominata “la corea” (un insieme di piccole casette costruite senza pretese, in fretta e furia, alla meno peggio).
In da la nostra via Assunta, ca’ l’era la via principal, ghera tuc i butec: ul paneté da la Dunzela, la merceria da la Francesca, ul macelar da l’Armando tacà al tabachè da la Luisina e, quasi in facia, la cartuleria casalinghi di surei Alda e Irene di Teabo. Dopo la Geseta ghera: ul sart l’Angelo dal Barbé, ul spezièe di Rutilì 1 ‘usteria dal Nuè (che ai temp da Lascia o raddoppia?, dal Tele quiz e dal Festival di San remo andaum a vidè la televisiun e purtaum da ca’ la cadrega par setas giò); in facia a l ‘usteria ghera ul fruturo da 1 ‘Egidia dal Ghes e dadrè di ca’, quai nascundu, ghera ul circul da San Grà: cun la sua usteria e ul cervele.
(Tutti i negozi si affacciavano sulla via Assunta, la via principale: c’era il panettiere della sig.ra Donzelli che nel frattempo, da via Garibaldi, si era trasferito a Grugnotorto, la merceria della sig.ra Francesca, la macelleria del sig. Armando Scuratti vicina alla tabaccheria della sig.ra Luigina (successivamente lasciata al figlio Luigi detto “Baffo”)
Il paese e le sue trasformazioni…
A lè un po’ da mes ca senti dì “il nuovo quartiere di Grugnotorto, . . le nuove case dopo il canale” e ma sun riprumisa, vist Ca ghe ul bel su’, de anda a vidè i Ca’ neuf
(Sono un po’ di mesi che sento parlare del nuovo quartiere sorto a Grugnotorto e mi sono ripromessa, visto le belle giornate di sole, di andare a vedere il nuovo complesso di case.)
Apena rivada giò dal punt dal canal ma se presenta una filera da ca’ in su la destra e, man man ca caminavi ma venivan incuntra sti palas e.. vun, edu, etri…, ma quanti in sti ca’? Ades capisi tuch i fac neuf ca ghe in gesa! Sa ved ca stan chi da Ca’; e anca lur ades fan part da la nostra comunità, dal nostar Grantort.
(Appena superato il ponte del canale mi sono ritrovata delle case alla mia destra e ad ogni passo mi venivano incontro altre palazzine,… una, due, tre, ma quante case hanno costruito mi sono chiesta? Adesso mi rendo conto che le nuove persone che vedo in Chiesa abitano qui e che anche loro fanno parte della nostra Comunità del nostro rione.)
In tant che turnavi a ca sun pasada de pruposit in mes ai ca’ vec e ai curtil e ma veniva in ment che quant seri una tuseta a Grantort a ghera dumà ses curt e la geseta:
“la curt granda, la curt di Pruserp, la curt di Caim, la curt di Marelit, la curt di Briusch e di Prada e la curt di Marei.
Dopo un po’ d’an han incumincià a rivà da la Brianza anca i prim furestee e insci i noster curtil in aumenta, se furmà la curt di Barbè e la curt di Bereta, tuc inturno al campanil da la geseta.
(Mentre tornavo verso casa, di proposito sono passata attraverso i cortili e ricordavo che quando ero una bambina a Grugnotorto c’erano solo sei cortili che esistono tuttora: il cortile grande, il cortile dei Proserpio, dei Caimi, dei Corti, dei Brioschi e Prada e dei Marelli. Successivamente verso gli anni 1925-1930 sono arrivati dalla Brianza i primi immigrati e precisamente le famiglie Spreafico, Limonta e Beretta ed hanno formato i loro cortili intorno alla chiesetta.)
Quanti fac ma venivan incuntra man man ca pasavi da un curtii a l ‘alter . .. le propi vera tanta gent da Grantort la sè spustada, tanta gent la ghe pù,… ma tanti, propi tanti ne rivà e sperem che tuc in sema farem grant e bel ul noster Grantort non un durmitori in duè la gent la sa nanca chi l’ è ul so visin da ca’, ma un bel riun in duè la gent quant la sa incuntra la sa surit e la sa saluda.
(Mentre passavo di cortile in cortile mi venivano in mente tutte le persone che un tempo vi abitavano, le loro facce e i loro modi di essere … di fare, certo molti si sono spostati in altri paesi, molti non ci sono più. Per fortuna altre persone, molte altre persone, sono arrivate: speriamo che il nostro rione sia sempre vivo, non un dormitorio dove non si conosce il vicino di casa, ma dove la gente quando si incontra si sorride e si saluta).
[1] Traduzione dialettale a cura di Marisa Confalonieri.