I pettini di Capogrossi pittura tra Italia e Moma
“…sono convinto di non avere sostanzialmente cambiato la mia pittura, ma di averla solo chiarita. Fin dal principio ho cercato di non accontentarmi dell’apparenza della natura: ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza, e mi sono proposto di definirlo”.
Così affermava  Giuseppe Capogrossi (Roma 1900 – 1972) in occasione della collettiva The New Decade. 22 European Painters and Sculptors del 1955 al MoMa di New York. E individuava l’origine della propria vocazione artistica in un’esperienza vissuta a 10 anni, visitando un istituto per ciechi, quando rimase profondamente emozionato nell’osservare i disegni dei bambini, fogli fitti di piccoli segni neri, espressione di un alfabeto interiore. Così Capogrossi, studi classici e laurea in giurisprudenza alle spalle, dopo la guida iniziale di Felice Carena e anni di fortunata pittura figurativa (nel 1927 la prima esposizione, alla collettiva della Galleria Dinesen e nel ’30 la prima partecipazione alla XVII Biennale veneziana), volse all’astrattismo informale. Una mutazione che Argan (1967) definì coraggiosa, al limite dell’incoscienza, senza ritorno. Fu l’emersione della famosa sigla identificatrice, quel segno dentato “a pettine” germinante già nella fase figurativa che Argan interpretava quale costante radice semantica, generatrice però di infinite declinazioni possibili e che dunque rispecchierebbe un concetto di spazio come campo di comunicazione, vale a dire di relazione fra l’io interiore dell’artista e la realtà esterna. Non perciò un simbolo misterioso, poiché il segno non rappresenta, bensì significa, in una continua “variazione…tutta ragionata…quindi minima” (G. Ungaretti, 1968), nel flusso situazionale in cui si trova a interagire. Nel 1950 la prima mostra di opere non figurative alla Galleria Il Secolo di Roma e nel 1951 la fondazione, con Ballocco, Burri e Colli del Gruppo Origine, obiettivo l’”evocazione di nuclei grafici, linearismi e immagini pure ed elementari”.
La Galleria Il Castello di Milano rende omaggio al pittore romano a partire da quel momento cruciale di scelta astratta con una retrospettiva di 25 dipinti realizzati tra il 1947 e il 1972, a conclusione di un progetto che ha presentato nello spazio espositivo figure celebri e di spicco dell’arte del ‘900 quali Joan Mirò, Lucio Fontana, Piero Dorazio e Gianni Dova.
L’informale segnico di Capogrossi approda alla fondamentale Superficie CP757 (1954; tempera su cartoncino bristol, 50×70,5 cm), dove il nero del segno sul bianco del foglio dichiarano al contempo “tabula rasa e opera totale…alfa e omega” dell’arte (M. Fagiolo dell’Arco, 1967). In Superficie 723 (1956-1972; olio su carta applicata su tela, 101,5×70,5 cm) le trame a pettine tessono l’ordito di fondo in una vivace messa in discussione del rapporto. In Superficie CP 839 (1971-1972; tempera e collage su carta intelaiata, 70,8×99,5 cm) Capogrossi sperimenta il gioco degli spessori, lo scarto dimensionale dei caratteri, il contrasto lucido/opaco. In una continua ricerca aperta a temporanee soluzioni nel contesto dialettico fra la propria identità e l’altro da sé.
 
GIUSEPPE CAPOGROSSI
Galleria Il Castello, Via Brera, 16 – Milano
28 novembre 2008 – 7 febbraio 2009
Catalogo a cura di A. Conte e M. Conte – Edizioni Galleria Il Castello – Milano, 2008 
 
©, 2008
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