IMPLOSIONI racconto
IL PESCE ELETTRICO
Era bello, giallo e fuxia con le pinne blu. Il beccuccio andava proprio bene allo scopo. Lo indicò alla sua ragazza. Lei disse che sì, andava bene allo scopo. Entrarono insieme nell’emporio cinese dove tutto costava al massimo 6 euro. Una campanella cinese annunciò del loro ingresso la padrona che si fece avanti, inchinandosi e arretrando con la schiena, facendo ali con le mani per invitare ad accomodarsi nel suo magnifico regno di cose di plastica a 6 euro, max.
«Buona sera, vorremmo vedere il pesce giallo che c’é in vetrina», disse Franco.
La donna assunse mosse quasi meccaniche, raccolse con le mani che parevano pinze il suo reperto di cattiva arte, lo alzò ad altezza occhi e lo pose in faccia a Franco come un trofeo di grande valore.
«Solo quattlo eulo.»
Misera e supplichevole, restò con in mano il pesce, sino a che Silvia non lo prelevò dalle sue mani e iniziò ad analizzarlo. Schiacciando un bottone sulla pancia, il beccuccio si allungava, poi si allargava, poi si accorciava, poi si allungava, poi si allargava, poi si accorciava. Andava bene allo scopo.
«Cosa dici?» – fece Silvia sorridendo timida – «Lo prendiamo?»
«Lo prendiamo», annunciò Franco alla padrona.
Era la sera prima della vigilia di Natale. Quella sera collaudarono il loro pesce. Funzionò alla perfezione. Mentre Franco si faceva la barba, Silvia vide in televisione il finale di un film che le piaceva, ma di cui non era riuscita a scovare il titolo.
Franco uscì dal bagno già avvolto dalla tuta con cui dormiva, quando Silvia disse:
«Già che il pc è ancora acceso, mi faresti una ricerca?»
«Sì tesoro.»
«Film con Bill Murray, ambientato nell’oceano, di un certo dottor Zissou, o qualcosa del genere, mettici anche il nome Hennessey, cercami questo film per favore. Se lo trovi, domani vai al megastore a comprarlo, e siccome è la vigilia, ce lo vediamo.»
«Ok, piccola.»
Entrò su Google e inserì le seguenti parole chiave: Bill Murray + oceano + Hennessey.
Ne venne fuori la risposta che cercavano: “The Life Aquatic With Steve Zisou”, 2004 – regia di Wes Anderson – 118 minuti.
«Evviva!», ripeté tre volte Silvia, come un triplo piccolo starnuto.
Il giorno dopo nevicava ed era la vigilia di Natale. Silvia sarebbe rientrata dal suo turno alle dieci. Il tempo di cenare e vedere il film. Ma prima doveva andarlo a comprare.
Si immerse nella convulsa vita della metropolitana, piena di gente che reggeva pacchi e pacchetti e sacchetti luccicanti di grandi magazzini. In centro sotto i portici, le luminarie erano davvero magiche. Valeva la pena di restare per sempre bambini.
Entrò nel multicenter, superò l’uomo della security, prese la scalamobile e si fece trasportare languidamente sotto terra in un mondo di luci e folletti, slitte renne babbi natale e nessun gesù bambino, nemmeno uno!
C’erano migliaia di titoli, tra film e cd musicali. Andò al banco informazioni:
«Scusi, sto cercando questo DVD», e detto questo, esibì la stampata della recensione del film.
Il ragazzo aveva l’aria dello studente pieno di nozioni male imparate e di lardo da secchione sedentario che non rimedia un 22 nemmeno dopo estenuanti full immersion sui libri. Odiava il Natale ma esibiva un sorriso abbastanza credibile. Allargò gli occhi, assunse un’aria golosa, ah, sei arrivato dunque, sei proprio tu quello che aspettavamo!
«Dice questo film? Ah Ah – nervoso, trafficava con qualcosa sotto il bancone – proprio questo film?!»
Lavorava lì dentro da due anni, e non aveva mai fatto altro che aspettare il momento in cui il piano “Steve Zisou” fosse dovuto scattare.
«Sì, questo film», Franco era allibito. E non si era accorto che, intanto – avvisati dal commesso tramite un allarme posto sotto il bancone – due energumeni della security erano accorsi, e lo stavano brancando per le braccia per portarlo via, sollevato di peso dal pavimento, verso uno sgabuzzino (all’interno del quale la sorte di Franco resterà per noi un mistero). Il commsesso parlò in un interfono: «Piano Steve Zisou ultimato con successo.»
«Bravo. Ora predisponi il nuovo piano», sentì rispondersi nell’interfono.
«Mi dica capo.»
«Il piano è soprannominato “Tim Roth Animals”. Mi hai inteso?»
«Sì capo, Tim Roth Animals!»
MERCI
Non c’è pace per chi cerca la felicità. Chi l’ha trovata, può ritenersi un uomo, una donna, finita/to. Non c’è pace nella ricerca. La tensione verso la felicità deve rimanere tale, sennò il filo si amolla, la vita si ammolla, il cazzo si ammolla, anche la spina dorsale si ammolla. Il cassiere del supermercato passava la roba sul lettore ottico: peperoni-bip-birra-bip-pane-bip-latte-bip-coste-bip-preservativi-bip-hamburger-bip-chiavetta usb-bip-bicarbonato-bip.
… i suoi occhi a fine giornata vedono lampi rossi… verdure bistecche candeggine birre liquori detersivi abbracciando la compagna con cui convive la agita credendo sia la bomboletta di spray deodorante-bip.
«Ma cosa fai? Mi ami ancora strepitosamente!»
«… no scusami…»
… la sua ragazza apparecchiò la tavola con dei piatti di carta-bip bicchieri di carta-bip vino in cartone-bip pane industriale-bip verdure surgelate cotte al vapore-bip formaggio economico in crema-bip… le posate regalo di sua madre.
«Non so se sto molto bene.»
«Cosa hai amore mio?»
«Sento continuamente bip nella testa.»
«Spiegati meglio.»
«Ogni volta che vedo un oggetto, sento bip. Bip. Bip. Bip.»
«Ti capita con tutti gli oggetti?»
«Solo con alcuni.»
«Quali ad esempio?»
«Col vino. Bip … l’ho sentito anche ora… bip…»
«Con questo?», la ragazza sollevò una mela.
«No.»
«Con questo?», un bicchiere di vetro.
«No.»
«Con questo? Ricordi? L’ho preso coi punti o nel negozio di elettrodomestici?»
… udì un Bip: «Coi punti, coi punti!» bip bip bip…
Finito di cenare, andarono in soggiorno. La televisione presa coi punti (BIP!) era accesa sul Guinnes dei Primati. Una piccola scansia di libri non faceva bip. … guardò i libri uno ad uno, e udì un BIP. Raccolse il libro incriminato. Un volume di Tom Clancy: «Cara l’hai preso coi punti?»
«… no, l’ho pagato.»
«… ma dove?»
«… dove lavori tu…»
… già … bip…
… andarono a dormire… posò la testa sul cuscino: BIP.
… baciò la sua donna: BIP.
URAG_ANO
Estate. Fine_estate. Fine di tante pene. Fine di tanti sogni mai avverati. Si riprende_a_lavorare.
Il caldo non mollava la sua presa. Il climatizzatore andava a manetta. Il TG annunciava temporali su tutto lo stivale, il repentino passaggio alla fase autunnale era previsto in nottata. Si sarebbero spenti i climatizzatori, finalmente, con conseguente risparmio energetico. Si sarebbe ripreso a vivere una vita normale.
… udì il solito BIP mentre si versava dell’aranciata. Ormai lo udiva ogni volta che vedeva o sfiorava la sua compagna.
Udì un tuono, solo un tuono senza BIP. Caddero poche gocce di pioggia, senza BIP. Non tutto a dire il vero era stato contaminato dai BIP. Sentì della gente salire le scale fuori dalla sua porta, puntò l’occhio nello spioncino, erano quelli del quarto piano: BIP BIP BIP.
Un vento fortissimo si mise a spazzare il mondo esterno. In giardino gli alberi erano quasi piegati. Annunciò alla sua compagna BIP di chiudere tutte le finestre. Le tapparelle tremavano e cigolavano scosse dal vento. Stava cadendo il cielo sulle teste dei milanesi. Finalmente sarebbe giunto l’autunno. Cenarono con del pollo BIP. Guardarono la TV BIP mentre l’uragano impazzava. Si udiva il vento, ma non una sola goccia di pioggia tanto attesa. Il caffè BIP gli fece venire le fitte alla pancia. Si ritrovò a cagare. Molle. Molle come acqua, merdarella liquida.
«… cara BIP il pollo era scaduto?», urlò dal cesso.
«No BIP l’ho preso oggi!»
«Sto cagando l’anima, non mi sarò preso l’aviaria?»
Cagava da un’ora, si era incollato col kulo alla tazza del cesso. Il vento impazzava e abbatteva alberi, ma non cadeva pioggia.
«… cara BIP mi porteresti l’ultimo Dylan Dog?»
«Arrivo! BIP.»
Sfogliava le pagine del fumetto. Trovò la storia del cagone che evacuava le anime infette degli assassini, esse si disperdevano nelle fogne, e risorgevano nel mangime dei polli.
«… cara BIP mi sono infettato con le anime degli assassini!»
«… Ma cosa dici! … BIP.»
«Tu non puoi capire… non puoi…»
«Ho sempre pensato che i fumetti ti facciano male!»
Il cesso era pieno di merda. Dovette tirare l’acqua per farla defluire. Ma il cesso era intasato, l’acqua tracimò con la merda, il vento infuriava ma non cadeva pioggia, la merda aveva ricoperto il pavimento del bagno, e ora si stava allargando sino all’anticamera.
«C’è puzza di merda BIP caro!»
«Le anime degli assassini sono qui, tra di noi… tra di noi!»
«… ma caro BIP stai impazzendo?»
«Ho mangiato le anime degli assassini!»
«Era solo pollo! BIP.»
Udì un tuono fortissimo. Poi il cielo si aprì.
«… caro piove piove! BIP.»
Si alzò dal cesso, camminò sulla merda e andò nudo sul balcone, a farsi bagnare da tutta quella pioggia benedetta. Le gocce lo colpivano su tutto il corpo BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP BIP…
STATO DELLO SCANNER: INFETTO
La corruzione è un dato luminoso. Sta contenuta nelle luci delle vetrine, nelle luci degli uffici, nelle luci dei pc, delle banche. Negli occhi senza luce di gente tagliata per la truffa e il raggiro, o più semplicemente per il parassitaggio. O meglio, il terziario. Mil-ano è la capitale italiana del terziario. Tanta gente con il tono di voce uniforme, da pescecane, e occhi senza luce. A Mil-ano chi grida “aiuto” resta inascoltato, ma se una moneta da 2 euro cade a terra, c’è chi la sente a dieci metri. Poi ci sono le eccezioni. Mil-ano, a volte ha il cuore in m-ano. Il più delle volte, no.
La telecamera ispezionava a ciclo continuo il supermercato. Funzione di sicurezza e controllo. Soprattutto sul personale. Lisa era appena tornata da una lunga assenza per malattia. Era invisa dalle altre colleghe cassiere. Era quella oltretutto ad avere un bel rapporto coi clienti, e per questo era invidiata. Agli occhi delle colleghe affaticate e inacidite, Lisa pareva sempre in vacanza. Si divertiva. Lisa passava le tessere col Chip spia sul lettore ottico. Da tempo il suo cliente preferito non le consegnava la tessera. Anzi, le aveva detto di aver scritto un articolo contro quell’usanza delle tessere. Il Direttore spiava Lisa e le sue affabulazioni con questo cliente sospetto. Il Direttore lo conosceva. Era un giornalista molto sospetto. Era andato sul suo sito, aveva letto l’articolo, e ora Lisa stava prendendo nota di qualcosa su un pezzo di carta, mentre parlava col cliente sospetto.
Il cliente sospetto se ne tornò a casa.
Lisa a fine turno se ne tornò a casa.
Il cliente sospetto faceva ogni sera la scansione antivirus al suo pc. Ora la scansione gli diceva: stato dello scanner: infetto. Il sistema antivirus aveva rilevato un malware dalla pericolosità molto alta.
Rimosso il virus, il cliente sospetto guardò un dibattito politico. Intanto Lisa a casa sua si connetteva al sito del giornalista sospetto, e ne leggeva l’articolo. A notte fonda, il Direttore del supermercato visionava le registrazioni della telecamera. Ve ne era una che riprendeva Lisa annotare sulla carta qualcosa che le stava dettando il cliente sospetto. Ingrandì il fotogramma, e il Direttore poté notare le ultime lettere del sito del giornalista sospetto. Inviò quindi una segnalazione all’ufficio del personale. Lisa era un elemento che andava stornato, una figura pericolosa all’interno della macchina produttiva di quel supermercato.
Il cliente sospetto tornò più volte al supermercato, ma non vide più Lisa. Non osò chiedere alle altre cassiere che fine avesse fatto. Esse erano torve, la pelle del viso giallastra, erano tristi e prive di curiosità. Andavano molto bene alla macchina produttiva, loro il posto non l’avrebbero mai perso.
ANTONIO APRILE, SCHIZOFRENICO
I suoi, come egli stesso li aveva definiti, erano viaggi “da matto”, senza meta, senza scopo, un vagare a bordo dei treni sul piano infinito dell’Europa come una pallina da flipper impazzita. Finito il servizio in Marina, Antonio Aprile s’era ritrovato tre milioni in tasca, la paga del suo lavoro di cuoco nella cucina di una nave da guerra ancorata al largo del Libano ai tempi della crisi. Montato sul treno a Brindisi, un oscuro impulso a proseguire non lo fece scendere a Milano, e alla fine di una notte di viaggio s’era ritrovato come in sogno a Londra. Era quindi ridisceso a Marsiglia – dove aveva cercato, su un fuocherello di fortuna, di arrostire un pollo nel tubo di una fogna – ed era rientrato a Milano, passando per Grenoble, dove la Polizia del luogo lo aveva segnalato alle autorità italiane. L’ingresso in Italia aveva significato finire dritto dritto in reparto psichiatrico e beccarsi la diagnosi di schizofrenia.
Erano passati circa vent’anni da quegli strani eventi, e Antonio aveva imparato a fare il buon schizofrenico. Ci vogliono due buone spalle per fare il buon schizofrenico. Soprattutto per sopportare i vari test cui mensilmente ti sottopongono gli psicologi, e tutta quella sequela di attività, come il disegno e il “Gruppo Das”, che in maniera imperturbabile, continua, ottusa e incalzante gli educatori vengono tutti i giorni a proporti. Ma Antonio, quando ce la faceva, rifiutava quel genere di cose, e per questo s’era guadagnato la nomea del paziente grave e refrattario alle cure. “Antonio si rifiuta” scrivevano gli educatori sulla cartella clinica, quasi a dare il la al medico che si sentiva in qualche modo autorizzato ad aumentare ad Antonio la terapia: “25 milligrammi in più lo renderanno meno passivo. Miracoli della farmacologia!” Ma di tanto in tanto Antonio accettava di fare una o due statuette col Das, giusto per farsi abbassare nuovamente la terapia che finiva per intontirlo, perché in fondo vent’anni di psichiatria gli avevano fatto capire il giochetto del buon schizofrenico: “più obbedisci, meno t’intontiscono con le pastiglie”. Tuttavia, dopo un po’ di statuette, non ce la faceva più, e preferiva tornare ai suoi deliri, che lo divertivano molto più delle statuette. La pacchia, però, durava un mesetto, dopo di che, vedendo che “si rifiutava”, gli veniva nuovamente aumentata la terapia. E così via, il giochetto durava da vent’anni, una vita così, era la vita di Antonio Aprile, schizofrenico.
©, 2010
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