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Trieste - Caffè degli specchi

Mumford lo Specchio e il Vetro

Mumford lo Specchio e il Vetro
Avremmo avuto la possibilità di leggere romanzi come Il rosso e il nero o I Buddenbrook se l’essere umano, nel corso della sua evoluzione tecnica, non avesse scoperto il vetro?
Ce lo chiediamo a seguito della lettura di Tecnica e Cultura, di Lewis Mumford (Il saggiatore, 1961). Il libro in oggetto ripercorre le tre fasi eotecnica, paleotecnica e neotecnica dello sviluppo della civiltà umana, avendo come filo conduttore il rapporto dell’uomo con le macchine, che Mumford chiama La Macchina, un rapporto che muta nelle tre fasi e ne sancisce in ognuna un particolare assetto socio culturale ed economico.
Di Mumford bisogna dire che era un eclettico geniale e anticonformista. Inviso dalla cultura accademica ufficiale, per le sue posizioni poco ortodosse, godeva di una vastità di conoscenze che spaziavano in tutti i campi dello scibile, con un acume critico e con un’originalità e indipendenza di giudizio che gli consentiva di abbracciare l’intera vicenda della storia umana. La sua Opera potrebbe essere letta alla stregua di una vera e propria filosofia della storia universale, con precedenti in Burckhardt, Spengler o Toynbee. Non amava lo specialismo, che considerava miope e borioso, e il suo animo era quello di un umanista del Rinascimento. Nonostante il successo di pubblico, il riconoscimento da parte dei colleghi non arrivò mai, in quanto lo consideravano un urbanista e un sociologo che si improvvisava filosofo della storia. Gli veniva rimproverato soprattutto il tentativo di ricomporre in maniera ottimistica l’immagine disgregata dell’uomo moderno, attraverso una tensione verso una cultura organica, che conciliasse arte e tecnologia (https://www.solotablet.it/segnalazioni/tecnocritica/fondamenti/technics-and-civilization).
Libro affascinante, questo di Mumford, che rintraccia anche negli oggetti di uso comune importanti riferimenti alla cultura, nella descrizione di stadi evolutivi umani che difficilmente verrebbero in mente, collegamenti di tipo sincretico sviscerati in maniera creativa ed ellittica, con un occhio costante allo sviluppo della Storia. Ad esempio, Mumford descrive i mulini a vento in Olanda, la cui quantità di cavalli vapore determinò in parte l’alto grado di civiltà raggiunto dall’Olanda nel XVII secolo. Il progresso della civiltà sarebbe per Mumford legato al progresso tecnico, e alla quantità di energia che quest’ultimo è in grado di sviluppare. Passaggi come questo esprimo tutto lo spirito di questo magnifico libro:
Comunque, mentre il cavallo rendeva possibile l’utilizzazione dei metodi meccanici in regioni altrimenti non favorite dalla natura, il progresso meccanico più intenso si verificò nelle regioni che avevano abbondanti disponibilità di vento e di acqua; fu infatti lungo fiumi veloci quali il Rodano, il Danubio e i rapidi corsi d’acqua italiani e nelle plaghe del Mare del Nord e del Baltico che la nuova civiltà gettò le sue fondamenta e creò alcune delle sue espressioni più splendide. (…) Naturalmente la fase eotecnica non si concluse di colpo alla metà del XVIII secolo perché, così come aveva raggiunto il suo apice nell’Italia del Cinquecento coi lavori di Leonardo e dei suoi geniali contemporanei, essa continuò a dar frutti nell’America del 1850. Due dei suoi prodotti più mirabili, il veliero Clipper ed il sistema Thonet per la lavorazione del legno sagomato, datano dal secolo diciottesimo.  
E ancora:
Le civiltà non sono compartimenti stagni e l’uomo moderno non avrebbe potuto trovare i suoi modi di pensiero, né inventare l’attrezzatura tecnica della quale dispone attualmente, senza attingere largamente alle culture che lo avevano preceduto e che intorno a lui continuavano a svilupparsi. Si può anzi affermare che ogni grande differenziazione culturale è il risultato di un processo di sincretismo. Nel suo studio sulla civiltà egiziana Flinders Petrie ha dimostrato che quella mescolanza di elementi che rese possibile il suo fiorire aveva addirittura delle basi razziali; quanto allo sviluppo del Cristianesimo, è chiaro che furono gli elementi esterni più diversi – un mito dionisiaco collegato alla divinizzazione del regno vegetale, la filosofia greca, il messianismo giudaico, il mitraismo, lo zoroastrismo – a dare un contenuto specifico e persino una forma a quella collezione di miti e di liturgie nella quale si identificò il Cristianesimo. Perché possa avere luogo il sincretismo di cui stiamo parlando, le culture dalle quali si attinge devono essere in uno stato di dissoluzione, oppure essere sufficientemente remote nel tempo e nello spazio da consentire l’estrazione di elementi singoli dalle strutture e dalle istituzioni già stabilmente operanti; non verificandosi queste condizioni gli elementi di civiltà non avrebbero la necessaria mobilità verso il nuovo polo di attrazione. Uno dei fattori di dissociazione è rappresentato dal fenomeno della guerra; si può dire infatti che il rinnovamento tecnologico dell’Europa occidentale si collega storicamente al travaglio bellico delle Crociate.
Questi passaggi dovrebbero dare l’idea della bellezza e dell’ampiezza di visione di questo libro, per lo più sconosciuto alla grande maggioranza dei lettori. Tornando all’inizio dell’articolo, ci chiediamo che ne sarebbe stato del destino dell’Arte e della Civiltà se non fosse stato scoperto il vetro.
Se il mondo esterno fu trasformato dal vetro, anche quello interno ne fu profondamente modificato: venne influenzato lo sviluppo della personalità, si arrivò ad alterare il concetto stesso dell’Io.
Con l’invenzione dello specchio, l’Uomo aggiunse un altro tassello alla propria evoluzione, giunse a concepire l’introspezione e l’autocoscienza:
Era forse la prima volta, a parte gli effetti specchianti dell’acqua e di smorte superfici metalliche, che era possibile vedere una immagine di noi stessi che corrispondesse esattamente a quella che si mostrava agli altri. La nostra immagine era presente in nuovi e inattesi atteggiamenti non solo nell’intimità del boudoir, ma anche in casa d’altri e nei ricevimenti. Il principe più potente del XVII secolo creò una vasta Sala degli Specchi, e lo specchio si diffuse in tutte le stanze della casa borghese. La continua presenza di questo nuovo oggetto sviluppò l’autocoscienza, l’introspezione, il colloquio con se stessi. Questa coscienza della propria immagine sorge ai primordi della formazione di una personalità adulta, quando il giovane Narciso se ne sta a fissare la sua immagine nello stagno, e da ciò scaturisce il senso della separazione della personalità, la percezione degli attributi oggettivi della identità. L’uso dello specchio segna gli inizi della biografia introspettiva nello stile moderno, ossia non intesa come mezzo di edificazione, ma come pittura della interiorità, dei suoi moti profondi, dei suoi misteri, della sua dimensione interna. (…) In questa personalità nello specchio c’è però un valore che culture più semplici non possedettero: se l’immagine che l’uomo vede nello specchio è astratta, essa però non è ideale mistico; più preciso è lo strumento fisico della riflessione, maggiore è la luce e più inesorabili si mostrano i segni dell’età, della malattia, della frustrazione, della malizia, della debolezza, del desiderio, e con la stessa nettezza si mostrano la salute e la gioia e la confidenza. In verità, quando l’uomo è completamente a suo agio nel mondo non ha bisogno dello specchio; è nel periodo di disintegrazione psichica che l’individuo si volge alla sua solitaria immagine per vedere cosa è veramente in lui ed a cosa si può aggrappare; e fu infatti nel periodo della disintegrazione culturale che gli uomini presero a mettersi davanti allo specchio.
Quest’ultimo passaggio dovrebbe far riflettere sul grado di dissoluzione psichica dei Nostri giorni, in cui l’uomo non può più stare un minuto senza farsi un selfie, per interrogare quello specchio elettronico che è diventato lo smartphone, in una inesausta richiesta di conferme e di certezze.
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