Una storia di Pellerossa d’America
Jack Schaefer è un nome che ai più non dice niente. Legato ai romanzi western, è autore di Shane, da cui venne tratto il film celebre Il cavaliere della valle solitaria. Se non mi fossi imbattuto in una vecchia copia del Reader’s Digest, non lo avrei mai conosciuto. Mi sono messo a leggere un suo racconto, Il canyon, rendendomi pienamente conto che si trattava di una lettura più adatta ai ragazzini. Eppure, man mano che mi addentravo in quelle pagine così schiette e così semplici, seduto nella mia poltrona, era come se venissi trascinato inconsapevolmente nelle lontane Black Hills nel Sud Dakota, dove un tempo vivevano i Pellerossa. La sua prosa semplice e piena di descrizioni della natura, l’avevo già trovata in altri scrittori americani, ma quella che al tempo stesso era una sorta di levigata rozzezza, scoprivo essere precipua degli scrittori western.
Poca psicologia, molta descrizione di ambienti e paesaggi, sensazioni immediate e sentimenti colti nel loro sorgere come acqua da una fonte sorgiva, erano gli elementi di quella scrittura western che andavo scoprendo, e che mi piaceva. Forse i libri dovrebbero essere scritti così. In Europa gli scrittori si sono sempre complicati la vita.
Ma bando alle critiche, e veniamo al racconto. Un giovane Pellerossa, Piccolo Orso, nell’età in cui è chiamato a dare il proprio tributo di coraggio alla Comunità in cui vive, scopre di non essere adatto alla guerra, e di averne paura. Il suo orgoglio non gli permette di continuare a vivere nel suo accampamento, senza sacrificarsi come gli altri suoi simili nelle frequenti battaglie. Subentra anche la vergogna, e l’idea di abbandonare i propri simili, per vivere in un luogo solitario. Allora, si incammina nella grande natura delle Black Hills e scopre un magnifico canyon disabitato, dove poter cacciare bisonti e vivere lontano dagli uomini che gli mettevano troppa ansia, un luogo adatto a un uomo che ha bisogni semplici, un uomo simile agli altri uomini, ma anche diverso da loro, un uomo che vuole vivere lontano da loro perché è diversa la sua visione di quel breve mistero che è la vita. Dopo un lungo periodo, in cui ha alla fina sentito il richiamo dei suoi simili, e dopo aver sconfitto animali feroci e demoni notturni, torna all’accampamento, dove prende moglie. Ma ancora una volta gli si presenta il dazio da pagare, ovvero, il dover andare in guerra, cosa che ancora lui non accetta. La moglie lo seguirà nel canyon, vivranno felici qualche mese, sinché non nasce il loro bambino, che perderanno perché si ammalerà. La moglie lo incolpa di averla costretta a rinunciare alle cure delle altre donne Pellerossa, che le avrebbero salvato il bambino. Sono pagine dense di tragedia, che Schaefer rende sapientemente sempre con parole molto semplici e con descrizioni efficaci. Di ritorno all’accampamento, il giovane Pellerossa decide di sottostare alle regole della Comunità, perché capisce che nessuno è un’isola, che tutti abbiamo bisogno dei Nostri simili.
Prima dell’arrivo dell’uomo bianco, le numerose tribù che componevano il popolo Pellerossa erano in perenne guerra tra loro. La battaglia era per i Pellerossa la premessa per acquisire prestigio fra i propri simili e potere, e doti di forza. Era come un rito, e per i più giovani aveva valore iniziatico. Salire in cima a un colle, per raggiungere una esperienza di trance, era ciò che il guerriero faceva prima della battaglia, per ottenere una visione che gli donasse un contatto individuale con il divino.
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