Lorenzo Cremonesi le guerre dimenticate
La presentazione del volume di Lorenzo Cremonesi «Guerra infinita. Quarant’anni di conflitti rimossi dal Medio Oriente all’Ucraina» tenutasi questo pomeriggio (25 maggio 2022) nei locali di Via Balzan intitolati a Dino Buzzati ha il pregio di un incontro pacato, dove la platea è assorta nell’ascolto con grande attenzione.
Il merito di questa atmosfera in cui non si vuole perdere nemmeno una sillaba è di Lorenzo Cremonesi, appena rientrato dall’Ucraina proprio per seguire la diffusione di quello che lui stesso definisce «un libro nato da una lunga gestazione, che non insegue l’attualità, che risponde a un’esigenza morale, civile, che nasce dopo aver capito, in tutti questi 40 anni, che noi non siamo pronti a leggere le guerre.»
Per far capire il senso delle parole di Cremonesi, dovremmo citarlo ad ogni riga, perché ha il grande pregio di farsi capire con estrema facilità e di non proporci mai l’odiosa falsa modestia dei finti intellettuali, ma di avere il coraggio di dire cose anche molto scomode.
L’autore parte dall’ambito familiare e da un se stesso ancora bambino per raccontarci come la guerra sia stata per lui un’entità immanente, strettamente legata alla morte, di cui è giusto avere paura. Fondamentalmente la guerra domina le sorti del mondo e le leggi della storia («la politica di potenza rimane uno degli elementi che generano la grande politica internazionale, i rapporti di forza») ed è sbagliato pensare che la guerra non ci appartenga più, che se ne possa fare a meno. Nel 2016, a Sirte, roccaforte di Gheddafi, durante l’espansione del nuovo Califfato (Isis), Cremonesi, giunto al porto, si imbatte in una grande scritta, che certamente lo colpisce: Da qui conquisteremo Roma, da qui batteremo i Crociati. A pochi chilometri dalle nostre coste, davanti a noi (colpevoli di essere del tutto inconsapevoli) viveva uno stato che aveva in mente di distruggerci. E se l’America ha il pregio di averci ospitati sotto il suo grande ombrello protettivo (ma molte colpe, che Cremonesi non evita di citare) e di averci risparmiato maggiori sofferenze, come mai stiamo ancora delegando a terzi la nostra difesa? Come mai non riusciamo a guardare in faccia la realtà che per garantire la democrazia e la libertà possa essere necessario anche l’uso della forza?
Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, il dilemma di cosa dire e cosa non dire, la durezza contro gli errori dell’Occidente, gli sbagli di tutte le parti in causa: tra tanti argomenti emerge inaspettato il timore per la fascinazione verso il conflitto, che può nascere nonostante gli orrori che lo compongono, il bisogno etico di capire cosa raccontare e cosa omettere, la necessità per il giornalista sul campo di cambiare idea, di dubitare sempre (la prima vittima della guerra è sempre la verità e tutti mentono, per fare propaganda o per l’entità degli interessi in gioco).
Cremonesi ha tanto da dire e si riesce con fatica a smettere di ascoltare. La guerra mette gli uomini a nudo e raccontarla, come giornalista, è un compito estremo e pregnante, la cui narrazione può essere incredibile. Per questo cita le vergogne di Abu Grahib (viste da un’ottica inedita), Nassiriya, i Talebani (anch’essi vittime di atroci violenze), Mazar-i-Sharif, Baghdad, la scomparsa di Padre Dall’Oglio. Ricorda il rischio concreto di morire, mentre si trovava in Iraq, il paese dove ha avuto più paura, la morte di alcuni colleghi giornalisti, il suono delle armi: entrare nella storia del singolo per uno come lui, che crede nel mestiere di giornalista, «vuole dire diventare parte della storia, con il rischio di immedesimarsi, di crederci, di diventare partigiano, per questo ogni tanto fa bene uscirne, vedere com’è il dibattito nel tuo paese. E poi magari anche tornare.»
Leggeremo questo libro, e consigliamo a tutti di fare altrettanto, perché ci racconta conflitti rimossi e dimenticati che non possiamo più permetterci di ignorare e perché non abbiamo trovato traccia, nelle parole di Cremonesi, di ipocrisia o di ambiguità. 

 

©, 2022

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