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UN NATALE POST ATOMIC CHICKEN – racconto

UN NATALE POST ATOMIC CHICKEN
ATTO PRIMO
Ci ritroviamo, dopo gli impegni famigliari, per il nostro caffè serale. E’ un Natale dalla temperatura primaverile. Questo non fa presagire nulla di buono. Papa Francesco invita alla pace e all’accoglienza dell’umanità ferita. Lo fa dai grandi schermi sospesi sulle pareti di bar semi delinquenziali dalle luci basse e dall’odore di caffè bruciato e di brioches rancide. Gli unici aperti il pomeriggio del 25 dicembre. Residuali esempi di umanità allo sbando vi si danno convegno per un whisky, una parolaccia, un losco traffico. Vecchio quartiere chiamato Isola oramai divenuto glamour. Gentrificazione, e altro. Ma certi locali del sottobosco urbano hanno mantenuta intatta la vocazione malavitosa del quartiere.
Qui un uomo sui quarant’anni che parla con altri due male in arnese, non sembra esprimere nulla di natalizio nello sguardo e nelle movenze. E’ così perfetto nella pettinatura e nei tratti del viso, nella piega composta dei vestiti scuri, nel collo dolcevita, nel disegno del naso sottile e della mascella delicata, da sembrare angelico, femmineo, tanto quanto la gestualità delle mani affusolate e ben disegnate, per nulla deformate da lavori pesanti, ma con un’aria così indistinta, tanto da non potergli attribuire alcuna professione né alcuna inclinazione, né alcuna reale capacità in qualche campo dell’umano esistere.
Le mani dovrebbero avere calli e screpolature dovute a lavori pesanti e senza qualifica, e, se non le hanno, vuol dire semplicemente che questo qui è uno che si guadagna da vivere col crimine. Quando parla col tizio basso e ossuto, dalla bocca sdentata e dall’espressione semi imbecille, che risponde a voce alta e in maniera scomposta come fanno i deficienti, faccia d’angelo abbassa lo sguardo, gli occhi dall’espressione ferma e mite, l’iride nera e immobile, uno sguardo che pare deciso e freddo come il foro in cima alla canna di una rivoltella, ti fissa per un momento, poi distoglie la faccia, con calcolo, non ama guardare negli occhi gli sconosciuti, né farsi guardare, è sfuggente, preoccupato da qualcosa, che lo fa parlare a bassa voce, compostamente come composta è la piega dei suoi capelli e dei vestiti, esce, sosta sull’angolo, si accende una sigaretta, si guarda intorno, con aria padronale, sembra soppesare la proprietà di quel pezzo di marciapiedi, di quel pezzo di piazza e di via, si sente padrone del suolo dove poggiano i suoi piedi, calzati da scarpe di poco conto, così come, di poco conto, e di scarsa qualità, sono i suoi vestiti dalla piega impeccabile, di poco conto è il taglio composto dei suoi capelli, completamente fuori moda, eppure, padroni di quel pezzo di via e di piazza, la macchina parcheggiata in curva, in divieto di sosta, la portiera aperta, tanto, nessuno si sognerebbe di andarvi a rovistare. Il vento porta via il fumo della sua sigaretta, porta via i suoi pensieri che si fanno sempre più torbidi, e lo portano a fissare indistintamente quel pezzo di paesaggio come una sua proprietà, ma senza accanimento, un semplice dato di fatto.
Monta in macchina, dove resta fermo, immobile, al posto di guida, a sogguardare il paesaggio. La vettura è una vecchia Volkswagen Polo completamente fuori norma. A guardare questo tizio, pur ben vestito e di bell’aspetto, vengono in mente certe sottomarche di vini, o di profumi, comprati in spacci commerciali a basso costo, destinati a chi non ha soldi per procacciarsi la vera bellezza e la vera qualità.
La notte ha il sopravvento, e io mi fumo la prima sigaretta della giornata, dal pacchetto che ho dato in consegna a Silvia. Pepe, la nostra cagnolina, fa la riottosa, si fissa in un punto del marciapiedi e non vuole più muoversi. Poi sopraggiunge una coppia con due cagnolini, e allora Pepe fa un balzo in avanti, e noi decidiamo di fare un salto in un qualsiasi altrove, in cerca di un altro qualsiasi bar, dove bere un altro qualsiasi caffè.
ATTO SECONDO
Il nostro è un amore che ha il sapore dei tanti caffè, bevuti in orari serali, alla ricerca di bar defilati, popolari, di poco conto, in zone poco battute, magari dopo aver fatto la spesa in uno dei nostri soliti e amati discount. Bar dove solitamente io trovo ispirazione per i miei racconti, e dove Silvia trova ispirazione per i suoi molti ragionamenti sull’umanità. Silvia, più di me, è capace di intessere dialoghi con gli sconosciuti, sempre regalando un sorriso, e una parola gentile. Io sono più taciturno, e di solito vado a scovare gli aspetti più al limite, quelli che racchiudono l’anima noir dei miei scritti, quelli che preferisco scrivere.
La città è immersa in una tenebra attraversata da improvvise e allaganti luminarie, e quest’anno Silvia ed io notiamo che non ci sono cumuli di spazzatura natalizia agli angoli delle strade, come sempre ce ne sono stati, forse la crisi economica ha ridotto lo spreco e lo sperpero, e indotto le persone ad essere più concrete. Non si trova un solo bar aperto. Anche il chiosco delle due ragazze rumene che frequentiamo di solito è chiuso. Individuiamo un ristorantino cinese, aperto e pieno di clienti, sudicio e sordido al punto giusto, tanto da decidere di andarci a cena da qui a qualche sera, pregustando già il momento, con l’entusiasmo del nostro innamorato gusto per l’esplorazione di luoghi al limite dove consumare i nostri momenti d’amore e di amicizia. Il sodalizio che ci unisce è fatto di queste cose, di lunghi dialoghi sulla letteratura, di saporite e divertenti disquisizioni sull’etimologia delle parole, e Silvia, fermi a un semaforo, mentre Pepe lancia uno sbadiglio standomi in braccio, annuncia di stare cercando di capire l’etimo della parola “etimo”. «Finché esisterà il sito etimo punto it io sono una donna tranquilla», mi dice Silvia, scatta il verde, e lei riprende a guidare con il suo piglio da pilota sicuro, che si indigna per le troppe infrazioni compiute da automobilisti cocainomani che ormai si continuano a vedere in questi anni con frequenza allarmante. Una Smart sbuca dal nulla in senso contrario, a una velocità folle, sarà andata a 120 all’ora in pieno centro cittadino, e subito dopo un’altra Smart ci supera a destra e ci taglia la strada. Facciamo le nostre considerazioni sui guidatori di una macchina che chiamandosi “Smart”, ovvero “Furba” e “Brillante”, spesso è in mano a gente che si sente più furba degli altri, e in diritto di compiere simili gravi infrazioni impunemente. Ogni volta che vediamo una scena come questa, io e Silvia auguriamo a questi guidatori di morire nel proprio letto, colti da overdose da cocaina, prima che una loro infrazione si trasformi nell’omicidio stradale di qualche innocente, che ha come unica colpa quella di amare la vita e i propri simili.
ATTO TERZO
Ci lasciamo dietro Viale Marche, un trafficatissimo viale a quattro corsie, buio, solcato nel mezzo da due file di alti alberi, e costeggiato da schiere di villette a un piano, cinte da giardinetti angusti, soffocati dallo smog dei tanti tubi di scappamento, e ci dirigiamo verso la Stazione Centrale, dove forse possiamo trovare un bar aperto. Il grosso edificio del Bingo mostra la luce intermittente della sala scommesse, e sull’ingresso disadorno e sporco un gruppo di arabi ubriachi che reggono bottiglie di birra e cartoni di vino, oltre la scia di macchine che corrono nei due sensi, una scena notturna di tristezza urbana, di movimento grigio di mezzi e corpi mal vestiti, dove all’improvviso un tram fa la sua apparizione col suo rumore di ferraglia che tuona assordante alle nostre spalle. Pepe guarda tutto fuori dal finestrino, attenta, ritta con la testa curiosa e vivace. Io e Silvia ci scambiamo frasi piene di affetto, scherziamo, facciamo previsioni. In breve ci troviamo sotto il tunnel della ferrovia, dove osserviamo dei senzatetto stesi sotto coperte e rifugi di cartone. Io, tra me e me, penso alle volte che mi sono sentito solo nella vita, senza aver mai considerato la vera solitudine che può colpire un individuo, la vera tragedia della povertà, dell’abbandono, che fortunatamente non ho mai provato. Ho sperimentato la solitudine delle vette, dei ghiacciai, di immense pareti di granito, ma era una cosa diversa che ritrovarsi a dormire in una galleria, protetto da un cartone, dimenticato da tutta la società. Ho provato la solitudine del non avere un solo amico. Ma tutto ciò è immensamente diverso dall’essere abbandonati a se stessi, dal non avere più alcun ruolo né alcun diritto di cittadinanza in questo mondo. Passando accanto a queste tragedie, protetto dall’involucro della piccola macchinetta di Silvia, che io e lei abbiamo il privilegio di possedere, faccio un sospiro e trattengo il fiato, cerco di dimenticare subito questa scena, cerco di cancellare il mio senso di colpa e di vergogna, cerco di non dire a Silvia quello che penso, ma lei quasi mi legge nel pensiero, e sbotta: «Dovevo fare di testa mia, venire in bici e lasciare un sacchetto con del cibo, come avevo deciso di fare, e non dare retta a te, che mi hai voluto mettere paura e dire che era pericoloso. La prossima volta lo faccio, faccio di testa mia, e basta!»
«Ma sta zitta! – cerco di scherzare – tu che hai scelto di lavorare in via Montenapoleone…»
«Zitto! Per favore, sta zitto! Tu non sai quanto mi pesi la mia mancata realizzazione professionale!»
«Eppure, agli occhi di molti sei una donna realizzata!»
«Non mi interessa cosa sono agli occhi degli altri. Agli occhi di me stessa non lo sono, e ci soffro da morire.»
ATTO QUARTO
La città scivola via nella lunga infinita sequenza di saracinesche abbassate, di strade immerse nel buio post festivo, dopo l’assalto ai negozi per gli ultimi regali la scenografia sembra essersi spenta, sembra aver fatto cortocircuito ed essere implosa su se stessa. Inutile cercare un qualsiasi bar dove bere un qualsiasi caffè. Non ci resta che tornare a casa, o continuare a girare in una città desolata, fatta solo di automobili che circolano come impazzite in mano a guidatori narcotizzati, col rischio continuo di fare un incidente. Pochi passanti camminano a gruppi, come piccole mandrie allo sbando, come piccoli greggi senza cane e senza pastore. Un’Umanità senza Pastore, avendo eletto a proprio pontefice una sorta di politico, o assistente sociale, un’Umanità cui è stata rubata l’ultima via possibile di accedere a una trascendenza. Finiamo anche noi per arenare la macchina in un qualsiasi viale periferico, attratti dalle luci di un locale marocchino dove si vende pollo fritto, l’unico aperto e in grado di accoglierci. L’insegna luminosa diceva chicken ultra. Al bancone, un arabo dall’aria criminale ci accoglie con un sorriso sdentato, un’allegria che ha il sapore delle lunghe privazioni subite, delle notti insonni e delle bombe schivate, e di chissà quante altre traversie passate sopra quel corpo esile, ossuto, dinoccolato, disarticolato, compreso in una lacera tuta nera e in un grembiule sul quale sono rappresi mesi di sudiciume lavorativo mai passato in lavatrice. Alle sue spalle, cumuli di pezzi di pollo fritti al vapore, gialli e schiumosi, dall’aria ripugnante, sotto la luce cruda di un riflettore che avrebbe anche il compito di tenerli al caldo. Un pezzo di pollo, patatine e due caffè sarebbero 5 euro e 60, che diventano 5, sconto con sorriso augurale, e subito l’uomo che si dà da fare per servirci il nostro vassoio, con una sollecitudine e una sbrigatività che è dei tempi di guerra. Quest’uomo, evidentemente, è in guerra, sta combattendo la sua guerra. Un odore acido e pungente pervade il locale, lungo e stretto come un vagone ferroviario, arredato con divani rossi messi di traverso come in uno scomparto di treno, all’americana, il soffitto basso che trattiene i fumi e le esalazioni mefitiche della cucina. Mentre aspettiamo di pagare, il nostro sguardo va alla clientela compostamente seduta ai tavoli, spiccano due cappelli rossi da babbo natale sulle teste di una coppia, lei italiana lui cingalese, e famiglie arabe e cinesi, famiglie pakistane e ispaniche. C’è un vociare sommesso, un diffuso cicaleccio di bambini che giocano sui tavoli coi loro pupazzi sotto gli sguardi annoiati ma vigili di madri col velo in testa, stanche e in quelle pose pietrificate che hanno le persone che amministrano al minimo i propri movimenti, dopo settimane e mesi e anni di fatiche. Un momento di festa anche per chi non può permettersi molto altro, sotto l’egida di un poster attaccato alla parete, raffigurante un pollo in cima ad un trattore, il trattore che affonda le ruote in un campo di grano, sullo sfondo di un Duomo di Milano incastonato in una sky line di grattacieli avveniristici, sotto un cielo arancione e marroncino, attraversato da nubi radioattive, che sembra l’esito di un disastro nucleare che abbia fatto fuori tutti gli esseri umani, lasciando sulla Terra un unico superstite: il pollo in cima al trattore, in questo NATALE POST ATOMIC CHICKEN.
©, 2019
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