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E’ TUTTO OK – racconto

E’ TUTTO OK – racconto

 

 

 

Corrado Diamante aveva appena concluso un buon affare, e aveva del grano infilato nel calzino, sotto gli stivali di cuoio. Si era tenuto venticinque euro e qualche moneta a portata di mano, per qualsiasi evenienza, e si aggirava abbastanza sicuro, per le strade piovose, sostenendosi al suo fidato bastone. Quel vecchio incidente era stato in parte una fortuna, ma non staremo qui a raccontare la rava e la fava, il disvelamento attende all’interno di un altro libro. Per intanto, diremo che il suo era un aspetto a metà tra il criminale e il poliziotto in borghese, le quali due cose, a ben vedere, si equivalevano, e facevano sì che, di notte, Corrado si sentisse abbastanza al sicuro.
Era così contento, così profondamente soddisfatto e grato alla vita, da guardare con benevolenza quel gruppo di negri sfatti e disperati, che attendevano con lui l’arrivo del bus di quella linea che portava verso le estreme periferie a Nord, con capolinea alla Stazione Centrale. La pioggia scendeva vaporosa, come una specie di sospensione leggermente appiccicosa, la quale andava ad adagiarsi sui capelli ricci e nerissimi di una ragazzina filiforme e androgina, dal corpo così poco sviluppato che la faceva sembrare denutrita, con lo sguardo fiero delle donne mature in quel viso tuttavia acerbo, forse proveniente dall’Asia Minore, da quelle terre dove i cromosomi si sono così mescolati nei millenni, da far sembrare una rumena a una iraniana, e una iraniana a una albanese. Gli rivolgeva gli occhi così fieri e dolci, da far trapelare forse una richiesta, e Corrado si colse tuttavia a pensare – nonostante la fierezza degli occhi – che aveva l’aspetto di un gattino appena nato, tutto ciancicato dalla pioggia. Il Bus portava a Sesto San Giovanni, ma questa ragazzina, fosse scesa a Sesto, sarebbe stata invero ricca, invece, Corrado presumeva che, dà lì, avrebbe camminato a lungo, per strade buie, sino ad arrivare alla periferia di Sesto, alla periferia della periferia, sino alla sua baracca, o alla sua stanza di venti mq insieme ad altre quindici persone, col loro fornelletto a gas e qualche scatolone. Avrebbe voluto parlarle, tirare fuori un cinquantone dal calzino, e darglielo. Ma si trattenne, e non seppe nemmeno lui perché, in fondo, era un gesto che poteva fare benissimo, senza alcun rischio. Forse, il timore di essere frainteso, o di offendere il suo orgoglio, la vinse sul desiderio di compiere quel gesto.
Una soffiata di vento aprì a un tratto le nubi. Il cielo venne come squarciato, e una luce dorata, tendente all’arancione, si stese su tutto, sulle strade, sulle persone, sulle auto, sui muri delle case, come uno strato di cipria, una strana luce dai toni apocalittici. Durò tre minuti, poi, il buio totale. Dai lampioni cadevano coni di luce fredda ed esanime, e due tizi, davanti a un kebab, dove tutti stavano impalati a guardare la scena senza muovere un dito, si stavano prendendo a pugni. Corrado fissava la scena dai finestrini del bus, chiedendosi cosa avrebbe fatto se fosse transitato sul quel marciapiede. Probabilmente, avrebbe provato ad alzare la voce, avrebbe mosso due passi prudenti verso quei due, ma non avrebbe fatto altro, se i due si fossero ammazzati sotto i suoi occhi, li avrebbe lasciati fare. Era troppo contento, egoisticamente contento, quella sera, per lasciare che il destino gli ficcasse la morte tra i piedi, per cosa, poi, per dividere due imbecilli, che se lo decidessero loro, il loro destino. Tu, si diceva, hai faticato, per coronare il tuo, e questo è sufficiente a farti tirare dritto. Stasera devi portare alla tua donna il ricavato del tuo affare, e festeggiare con lei l’acquisto della nuova lavatrice. Ti attende una cenetta buona e senza pretese, ti attendono le fusa del gatto, un bicchiere di crema al whishy e una marea di abbracci e baci. No, non varrebbe la pena che ti immischiassi.
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Questa sera è tutto ok, pensò Corrado. E’ davvero bello poterlo dire, finalmente. Con la tua Patata ci starebbe bene anche una bella scopata, come da tempo non ve la fate. Sì, perdio, ti attende una bella serata, è proprio veramente ok. Che strana questa vita. A volte la odi. A volte, la ami come questa notte. Cosa cambia? Se non qualcosa in te, se non quell’interruttore che, finalmente, devia i cattivi pensieri, e ti fa guardare diversamente le cose?
Lungo il viale – un rettilineo cementizio dritto come una fucilata, chiuso da una parte dalla sopraelevata ferroviaria, dove le saracinesche abbassate di vecchi esercizi commerciali ormai morti e sepolti sembrano tanti NO gridati in faccia, tante negazioni, e sul lato opposto edifici popolari, dove a un tratto Corrado scorge, al piano terreno, una prostituta dell’Est mezza nuda che parlotta al cellulare, lanciandogli uno sguardo civettuolo continuando la sua conversazione a un metro e mezzo sopra il marciapiede – Corrado insegue i suoi vecchi passi, di quando transitava da quelle parti, ancora senza il bastone, ancora senza quel suo aspetto addosso alla sua persona, ed era una quasi rispettabile persona della buona borghesia, piena di inventiva e ambizione. A parte la sua donna, una ragazza molto brava, pulita e capace nel suo lavoro, il di lei gattino, e un paio di amici tranquilli, Corrado si sorrideva più spesso con puttane e mezzi avanzi di galera, e se, una volta, quel viale gli faceva paura, adesso vi si sentiva accolto, e quasi protetto. Era il suo mondo, così come non lo erano più le vie del Centro, i locali eleganti e quant’altro apparteneva alla gente che ormai lui detestava.
Non era mai entrato in quella porticina che si apriva in un bar frequentato solo da negri. Decise di andarvi a prendere un caffè. Salì due gradini, sotto una insegna luminosa, che si accendeva e spegneva in maniera intermittente, e recava il nome di richiamo del locale, un nome, un termine africano e incomprensibile, dal sapore lontano, esotico, invitante. Sospinse la porta cigolante dal telaio in metallo, forse appartenuto a una vecchia officina, verniciato di bianco e già in parte scrostato. Il vetro, pure esso, a non far guardare dentro, era coperto da una mano uniforme di vernice bianca, data senza alcuna pretesa. Decise, mettendo il primo piede dentro la stanza, che subito si presentò bianca, angusta, pochi divanetti di modesta fattura, forse capace di contenere comodamente una quindicina di persone, e non di più, decise, allungando la testa dentro, di pronunciare un prudente “permesso?”.
Si trovò un africano di spalle, seduto su un alto sgabello, che, superato, poté vedere in viso, un viso segnato più dai lavori faticosi che dalla criminalità, benché nel suo vestiario fosse evidente un certo codice, il codice dello spaccio.
«Buonasera…», disse Corrado, allungando al tizio un sorriso.
Lui buttò indietro il berretto nero, a tesa piccola, e azzardò un: «Ciao, amigo…»
La padrona, una africana bellissima e matronale, una specie di elegante, altera Regina di Saba, avvolta in un fine vestito a fiori, alla quale mancava solo un turbante, o un diadema sulla fronte, a coronare il suo aspetto regale, un aspetto che non concedeva alcuna confidenza, intenta a fare qualche faccenda dietro il bancone, lo fissò, senza pronunciare una sola parola. L’altro, fissava Corrado con un mezzo sorriso. Corrado si sentì subito costretto a mettere in chiaro le cose:
«Posso avere un caffè?»
La donna fece un cenno d’assenso, gentile, ma al tempo stesso non incoraggiante. Corrado capiva due cose: che si era introdotto nel loro territorio, forse con impudenza, certamente in una maniera che faceva loro sorgere qualche interrogativo, del tipo, ad esempio, relativo alla sua ipotetica appartenenza alle forze dell’ordine in borghese. Capiva che non gli potevano rifiutare un caffè, la Regina posizionò una cialda nella macchina espresso, e il caffè venne infine posato gentilmente sopra il piattino, con cucchiaino e una bustina di zucchero. Senza che si fosse levata una sola parola. I gesti lenti, regali, della donna, erano volti a non dare importanza alla sua presenza, mentre l’uomo continuava a fissarlo sorridente. Corrado capì un’altra cosa. Capì di essere considerato o uno di loro, della qual cosa non potevano però avere la certezza, o un poliziotto. Capì che l’incertezza di entrambe le opzioni, imponeva un regime di serrato silenzio. E poi capì che, loro, non sarebbero mai entrati, con altrettanta impudenza, in un locale di bianchi. Si vergognò della propria invadenza. Voleva guardarsi attorno, voleva apprezzare il mobilio povero nella sua estrema eleganza, le pareti spoglie ma perfettamente bianche, gli alti soffitti da vecchia officina riattata a locale leggermente glam serale, ma si impose di non dare a vedere che si guardasse intorno.
«Quanto le devo?»
La donna ci pensa su. Poi, controvoglia, dopo una breve indecisione: «Un euro.»
Un euro, che non era un euro, che poteva essere più di un euro, o meno di un euro, ma non era “un euro”, e la scelta di “un euro” era stata una scelta sofferta, alla fine espressa con un tono arreso, e scocciato.
Corrado posa la moneta sul bancone, ringrazia, saluta cortesemente, avrebbe anche voluto scusarsi per la propria invadenza, e se ne va.
La serata era veramente ok. A casa della Patata avevano pure aggiustato l’ascensore. Aveva una dannata voglia di abbracciarla, e poterlo fare senza il fiatone degli ultimi tempi, per aver salito tre piani di scale di fretta, era il segno che quella serata, era davvero una serata OK.
©, 2018

 

 

 

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