JACK HIRSCHMAN A MILANO SOGNANDO CALIFORNIA E PACE
Com’è remota la felicità. Eppure poeti come Jack Hirschman ce la fanno sognare. In una serata milanese, grigia, automobilistica e monotona come tutte le altre.
L’utopia è palpabile, qui, a portata di mano, sembra trasparire dai versi possibilisti e entusiastici, proiettati verso il futuro, di Jack.
Un velo di morte e terrore è calato su tutte le cose, a livello globale. Ma la voce di Jack sa tuonare, calda e accorata, ancora piena d’amore, un grido disperato, solitario, nella planetaria notte piovosa, nella quale si preparano stragi, attentati, si pianifica a livello centrale lo sfruttamento di domani e dopodomani. Qui, al CRT di via Alemagna al 6, a Milano, in questo 7 novembre 2005, siamo un piccolo manipolo di spettatori, davanti a noi uno degli ultimi cantori della pace e della non violenza ci stordisce coi suoi versi, in un reading di potenza inaudita. Viene il vomito, viene la nausea, viene voglia di scappare e piangere. Le sue parole mi fanno male. Molto male. Mi scavano dentro, come un colpo d’arma da fuoco a bruciapelo.
Eppure anche questo è amore, è molto-amore, è amore allo stato puro, esplosivo. Un disastro di parole, un fiume di parole, ognuna delle quali si incide, a fuoco, nel cielo piovoso, mediocre, di questa triste notte, e per un po’ lo illuminano. Jack ci dice, ci grida, disperato, che noi siamo sì dei non violenti, ma siamo costretti ad appoggiare la violenza nostro malgrado. E quindi violenti sino in fondo, anche noi che non diremmo mai una brutta parola a un extracomunitario. Intrappolati nella macchina capitalistica del profitto-violenza-guerra-morte-sopraffazione. Cantore degli oppressi, della pace, difensore degli umili, amante della bellezza, Hirschman guarda il suo pubblico negli occhi, interagisce, cerca il contatto e la comunicazione con la gente, la gente comune, che egli ama, chiama a confronto su temi in cui l’uomo, nella sua dimensione sociale e alienata, è centrale, in una posizione di lavoro poetico lontano da intimismi e inutili e superficiali schemi stilistici. Il Mondo è al centro della poetica di Hirschman, inteso come Uomo, in quanto ormai l’uomo e l’altro uomo sono abitatori di un pianeta che si fa sempre più piccolo, fragile, in cui c’è bisogno di aiutarsi vicendevolmente, e civilmente, dato che le risorse energetiche sono sempre meno, e i problemi climatici riguardano tutti. Eppure, sottolinea Hirschman, c’è sempre chi, minoranza privilegiata, schiaccia una maggioranza di deboli, vi manda i suoi bombardieri a pianificare guerre nel nome di una giustizia imposta con l’arroganza dei mezzi economici. Sembra non esserci via d’uscita. Sembra, questa, una spirale che ci ucciderà tutti, la pace sembra lontana. Sembra. Perché Hirschman sorride, ha gli occhi luminosi, fiduciosi. Forse anche lui crede nel no future, ma alla fine ci dice “scrivi poesia”, perché siamo tutti poeti, tutti siamo stati felici in un’epoca della nostra vita che ci siamo dimenticati di aver vissuto, tutti siamo capaci d’amare. A caldo, poco dopo l’uragano che ha sconvolto l’America e le coscienze, Hirschman legge versi dedicati alla tragedia di New Orleans. Canta con dolore la notte, il freddo degli homeless, si mette negli occhi di una bambina che ha visto le Twins crollare a pochi metri da lei, cita Pasolini e la natia Casarsa, in Friuli, come esempio sempre vivo e valido di poesia dedicata alle grandi problematiche umane. Cappelli da cow boy si confondono nelle notti salernitane, le citazioni italiane di un uomo innamorato delle vestigia del vecchio mondo si mescolano agli elicotteri che solcano i cieli durante gli allarmi terroristici. Vibra, poesia che scuote e vibra come acqua in una condotta forzata. E irrompe, sgorga, come eiaculazione alla fine di un estenuante amplesso. Grazie Jack, per aver illuminato questa triste notte milanese.
©, 2005
SOGNO BEAT IN MOSTRA A MILANO
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