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Ricordo di Gaston Rébuffat

Ricordo di Gaston Rébuffat
“Andare là dove l’occhio ha guardato” – Gaston Rébuffat – “Gli orizzonti conquistati”
Di Gaston Rébuffat amo ricordare soprattutto le immagini che lo ritraggono in cima alle guglie del Massiccio del Monte Bianco. Nessun altro, più di lui, ha saputo, nel corso della propria attività alpinistica, unire l’azione fisica al vero estetismo che fa di un alpinista anche un artista, che sappia comunicare a un vasto pubblico le emozioni più profonde capace di trasmettere la montagna, non solo terreno di performance sportiva, luogo in cui coronare discutibili record, ma dimensione poetica, lirica, in cui l’alpinista è romanticamente compreso in un totale accordo con la natura e – se vogliamo – il creato.
Spesso in queste immagini Rébuffat è solo, solo su una cresta, uno spigolo, una guglia svettante sui ghiacciai, a un passo dal cielo. Ciò mi ricorda certi concerti di musica classica, concerti per pianoforte e orchestra, in cui il pianista, romanticamente, affronta in “solitaria” l’intero complesso di strumenti, così come Rébuffat, in completa solitudine, affronta il Monte Bianco.
Non si può ricordare Gaston Rébuffat disgiunto dalla sua macchina fotografica. Sembra quasi che questo indimenticabile alpinista affrontasse le intere fatiche di una salita unicamente per coronare un magnifico scatto fotografico, da tramandare alla storia. E lui nella Storia ci è entrato a pieno titolo.
E tra i titoli dei suoi libri, dobbiamo ricordare “Stelle e tempeste” e “Gli orizzonti conquistati”, Opere in cui questo artista ci ha saputo trasmettere tutto il suo trasporto per la montagna, in una unione perfetta tra Uomo e Natura. Tradotti in varie lingue, restano dei classici, scritti da uno fra gli alpinisti più “classici” del secolo scorso. L’alpinismo come lo intendeva Rébuffat purtroppo sta morendo, soppiantato, anzi, schiacciato dall’arroganza, dall’ignoranza di nuove generazioni di “arrampicatori” che nulla sanno della montagna, se non farsi belli della forza dei propri muscoli, capaci di far loro superare difficoltà sempre più estreme su vie preventivamente spittate. Nulla vi è di poetico in tutto ciò, ma solo dimostrazione di forza, forza bruta capace solo di confermare l’insipienza di certi “avventizi” della montagna, che dovrebbero interrogarsi, prima di tutto, in che rapporto sta un uomo con la parete, se questa viene letteralmente “stuprata” da mezzi tecnologici con l’unico scopo di fargli superare in completa sicurezza un passaggio che, altrimenti, non si arrischierebbe a fare nemmeno su un sasso di fondovalle. Ho scritto questa breve memoria su Rébuffat, nella speranza che qualcuno colga ancora il messaggio di questo grande, etico, alpinista, che aborriva la volgarità della forza in se stessa. Per Rébuffat forza e tecnica non erano un fine, ma un semplice mezzo per coronare il suo rapporto con montagna e natura. Oggi, invece, sembra prevalga l’uso della forza e della tecnica fini a se stesse, una modalità che finirà per svuotare completamente l’alpinismo dei suoi valori più puri.
©, 2005
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Questo articolo ha 4 commenti

  1. Ilario

    Sono pienamente d’accordo! In pochi semplici concetti, il mio lensiero che cerco di divulgare e far comprendere da anni……….ma alla base già, mancano la cultura dell’alpinismo e quella della fatica mentale.

    1. Andrea Di Cesare

      Caro Ilario,
      un grazie di cuore, e per diversi motivi:
      perché anche Lei – è alpinista, in che anno è nato? – sta cercando di dare il Suo contributo su questi temi, che non sono solo temi alpinistici, ma di generalizzato costume di una intera Società, di una intera Cultura, costumi che, nella fattispecie, si riflettono su un certo modo di fare oggi montagna. L’imbarbarimento culturale, si riflette nel microcosmo culturale dell’alpinismo in quella forma di arrampicata di cui stiamo parlando, ma si tratta di un riflesso particolare di un più largo orizzonte.
      E poi grazie per aver notato questo articolo, forse il meno “alpinistico” (tecnicamente) dell’intera Sezione Montagna di questa Rivista, e quindi anche il più difficile da comprendere e apprezzare in un’ottica alpinistica: è per questo che Le ho chiesto se Lei sia alpinista, e quanti anni ha.
      Dunque, alla prossima, e grazie ancora.
      Andrea Di Cesare

  2. Ilario

    Sig. Di Cesare, nell’approfondire la conoscenza sù Gaston Rebuffat, sono arrivato al suo bellissimo e rassicurante articolo, e con grande piacere scopro un sito interessantissimo, pieno di temi che possono rasserenare la mia sete analitica, ma che aimè ancora non ho potuto leggere……….non vedo l’ora di inoltrarmici.
    Da sempre nella mia vita, ho cercato mondi dove almeno debolissimi arrivassero i riflessi, di una socetà ed i suoi peggiori istinti, ed arrivato all’alpinismo venti anni fà, mi sono sentito salvo! Ma concordo haimè nel fatto che, negli ultimi anni, e sempre a causa di ingenue (a mio parere) divulgazioni, sia arrivato anche in gran parte delle montagne tramite l’indotto del lucro i riflessi di orizzonti molto lontani da l’alpinismo, ma prossimi ai comportamenti di massa delle odierne e sviluppate socetà. In tutta sincerità anche io l’avevo già cercata sù facebook…….ho 45, e la prego di darmi del tu.

    1. Andrea Di Cesare

      Caro Ilario,
      per me sono passati troppi anni dai tempi della montagna, non ho più avuto esperienza diretta del clima umano che vi si respira, solo, alcuni anni fa, era il 2006, feci una camminata nel lecchese, e notai che gli escursionisti, incrociandosi, non si salutavano più. Ci rimasi molto male, e pensai che qualcosa stava irrimediabilmente cambiando in peggio. Nel 2006 stavano appunto nascendo i Social, e la socialità, quella vera e sana, stava morendo. Spero che questo sito ti dia ancora nuovi spunti di lettura da condividere con quante più persone possibile. Anche questa è una forma sana di socialità, anche se avviene su Internet. Grazie, e a presto.

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