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Le visite degli scrittori alle fabbriche con “Civiltà delle macchine”
Ho già recensito per questa rivista un libro fondamentale per la conoscenza del grande contributo che le imprese industriali italiane hanno dato alla nostra nuova cultura (Carlo Vinti, Gli anni dello stile industriale – 1948-65), nell’incomprensione, sottovalutazione o addirittura disprezzo e paura degli intellettuali tradizionali e delle riviste più prestigiose dell’epoca, cui si contrapponevano soltanto “Civiltà delle macchine”, la rivista della Finmeccanica, diretta nei primi anni dal poeta e ingegnere Leonardo Sinisgalli (1953-57) e il piccolo, ma combattivo “Diogene” (Genova-Milano, 1959-67). Un forte contributo alla conoscenza di quella incomprensione è dato da L’anima meccanica, a cura di Giuseppe Lupo e Gianni Lacorazza, Avagliano Editore, che porta il sottotitolo Le visite in fabbrica in “Civiltà delle Macchine” (1953-1957).
Sinisgalli che, dopo essersi fatto le ossa con Giuseppe Luraghi alla rivista “Pirelli”, diresse i primi trentuno numeri di “Civiltà delle macchine”, ancora con l’aiuto di Giuseppe Luraghi, manager coltissimo e letterato, aveva l’ambizioso programma di fare incontrare la cultura umanistica e il sapere scientifico e tecnico, la letteratura e l’industria. Era ben consapevole dello iato profondo fra quelle che qualche anno dopo Charles Snow avrebbe chiamato, con il titolo di un fortunatissimo libro, Le due culture: uno iato forse ancora più profondo, un vero abisso, in Italia più che in altri paesi europei. Come dice Giuseppe Lupo nell’introduzione al libro, le radici della separazione si ha nelle arti medievali del Trivio e del Quadrivio; e ricorda che Sinisgalli aveva scritto in un’ intervista a Ferdinando Camon (1965) che alla cultura dell’Occidente “erano sfuggite le scoperte di Archimede e di Leonardo, di Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein” e ipotizzava un’idea politecnica del sapere, fondata sulla “commistione” e sull’”innesto”.
Soltanto pochi autori si sottraggono al paragone, così comune per tanti altri, tra fabbrica, gioco e circo, primi fra tutti Geno Pampaloni e Franco Fortini, ambedue con esperienze olivettiane. Pampaloni dedica il suo contributo all’esperienza operaia e umana di Simone Veil, cominciando da un “’pezzo” dell’autrice sui rumori della fabbrica e sulla trasformazione dell’uomo in operaio, ma che conclude: “Se fosse questo, la vita di fabbrica sarebbe troppo bella. Ma non è questo. Quelle gioie sono gioie di uomini liberi; coloro che popolano le officine non l’avvertono se non in brevi e rari istanti, perché essi non sono uomini liberi”. Pampaloni conduce tutto il suo contributo nella massima comprensione sia per la Veil sia per gli operai: “Simone Veil non aveva condotto la sua esperienza di fabbrica come un turista, o un esploratore, con spirito di curiosità o di ricerca, ma con piena responsabilità e fratellanza…(per lei) era stata un’<incarnazione>”……(essa capì) che la rivoluzione, se mai, è l’oppio dei popoli, perché la speranza della rivoluzione può essere anche uno stupefacente che allontana dall’oggi, dall’io, dalla propria esistenza”. E la Veil aveva scritto anche che la vita sociale dev’essere proprio corrotta “se gli operai si sentono in casa propria nella fabbrica quando scioperano, ed estranei quando vi lavorano”.
Fortini, in un “pezzo” dal titolo significativo (La vecchiaia difficile) stigmatizza una civiltà che onora il bimbo perché sarà produttore e il vecchio perché “lo è stato”, annota che la maggior parte dei pensionati vorrebbe poter continuare a lavorare e ha riconoscenza per i datori di lavoro, perché “la maggior vittoria è quella di far adottare al vinto il proprio codice morale”…… “La vecchiaia dell’operaio fa splendere, come nessun’altra vecchiaia, un fallimento”. E poi Fortini analizza, anche sulla base della ricerca di un sociologo francese, le differenze fra l’operaio americano (prima americano e poi operaio) e l’equivalente europeo; ma eravamo ben prima dei progressi del nostro continente e del “miracolo” italiano che hanno molto avvicinato non i patriottismi, ma certamente gli stili di vita. In ogni caso, conclude Fortini, c’è “l’impossibilità, per la grande maggioranza degli operai, di essere quel che il lavoro dev’essere, cioè creazione e amore, pena e dolore, ma anche impegno ed espressione”.
Anche Domenico Rea ha molta considerazione degli operai, e ne cita alcuni per nome e per le loro caratteristiche: il Verde, il Nocera, il Leperino della INM, e gli operai preoccupati dai pericoli negli Stabilimenti Meccanici di Pozzuoli. Così De Simone Alfonso, di settant’anni, mast’e forgia, che alla domanda come si trovava a fare quel lavoro, risponde: “E come debbo trovarmi signor mio. Mi trovo o non mi trovo, debbo trovarmi bene”. Così anche don Ciccio Calabrese, già marinaio, e ora vecchio attivissimo nel bacino, che fa concludere a Rea: “Sfatando la leggenda che esserlo (napoletani) renda apatici e scansafatiche, non si dimentichi il nostromo del bacino di Napoli, don Ciccio Calabrese”. Quanto a Carlo Emilio Gadda, conosceva bene le fabbriche e gli operai, ma il suo contributo a questo libro è un piccolo trattato sull’energia e gli ingegneri della centrale elettrica dello stabilimento Cornigliano
E gli altri autori? Giorgio Caproni, uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, solitamente così attento alle persone e alle cose, nella visita ai cantieri Ansaldo si perde fra le elucubrazioni sul ristorante di Sestri Ponente e sui tentativi di capire il cantiere navale, “la mappa di una civiltà da me appena intuita”, e così poco compresa che gli appare come “una delle più meravigliose cattedrali che mai nella mia vita natural durante (sic) mi fosse stato dato di visitare”, “un cantiere che è veramente…l’alveo femminile in cui, gettatovi il seme del numero, si formano, nave dopo nave, generazioni di navi che si propagano poi per i mari del mondo”. La chiave di questa retorica incomprensione sta nel cincischiare sul “frusto dizionario dell’immagine, quando piuttosto mi sarebbe occorso, nell’eccezionale giornata, proprio l’opposto”. Ma non trova l’”altro” dizionario e rimane estraneo al cantiere.
Quando poi Caproni va a fare la seconda visita, alla centrale di Monte Argento, dichiara in vari modi e più volte di essere entrato nell’”intatto reame della Matematica”, ma confessa “ero ancora così ingombro di paesaggio, e di figure in quel paesaggio; e insomma ero ancora così ingombro del mio esser uomo… ero ancora così in corpore meo, da non sapermi staccare, in quel fragore e sentore di liquidi numeri neri…”. E tutto il “pezzo” è un colore e rumore d’acque. L’operaio, l’uomo, vi è assente.
Michele Prisco trova nella Fabbrica Macchine Industriali “un’aria gaia, quasi di fiera di giocattoli, accentuata dal miagolio turbolento di due gattini che si azzuffano senza troppa convinzione”. Alla Cirio, le macchine, cioè “i dinosauri erano in azione” e si trasformavano……in una ridda di montagne russe, dove le scatole salivano, scendevano, rimbalzavano… Sarò sciocco, ma a vederle m’incantavo come un bambino”. C’erano i gattini, ma non c’erano gli uomini.
Anche Franco Gentilini e Libero De Libero si fermano all’analogia estetica con le cattedrali, “dove si svolge un rito, una liturgia” (Lupo). E Domenico Cantatore ammette che le maestranze “sorrideranno divertite nel vedere i loro possenti attrezzi trattati a guisa di fantastici giocattoli”, perché ospitando poeti e pittori, “accogliete sempre dei bambini” e infatti conclude: “la colata ha un che di festoso, di bizzarria pirotecnica, mentre gli operai si danno un gran da fare con l’ansiosa attenzione dei preparativi di una processione”.
Ma è necessario continuare nei dettagli? Si leggano Giovanni Arpino (Carrozzeria Bertone), Franco Cavallo che all’IMAM parla solo con gli ingegneri, Michela Parrella (SPICA di Livorno), Emilio Tadini, attento alla tecnica e alle fusioni, Giovanni Comisso. Questi descrive una serie di animate scenette, dove sembra che gli operai non aspettino altro che il padrone volti le spalle per fare scherzi e compromettere il lavoro, tanto che il titolo è I giocolieri dell’officina.
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