LO “SPRECO” DI TRIESTE IN UN LIBRO DI ANITA PITTONI
Una città piccola, provinciale, chiusa nel proprio incredibile orgoglio (incredibile perché ogni cosa vi è occasione di uno sfrenato campanilismo); ma una città colta e cosmopolita. Questa è la contraddizione di Trieste, la contraddizione che ho conosciuto vivendoci, e una delle ragioni del fascino di questa mal nota città. Ogni volta che vi torno, mi sorprende l’aria vecchiotta di tante sue strade, il senso di Settecento e di Ottocento presente quasi dovunque nel centro, la tranquillità delle rive. D’altra parte, però, una cultura composita, il privilegio di avere appartenuto, fino a nemmeno cent’anni fa, a quell’impero asburgico che (se non era affatto il regno di bengodi e quel modello di sapienza politica che molti vogliono credere oggi, per il  ricorrente ma ingannevole mito del passato) era tuttavia una forma particolare di civiltà; confluivano nell’impero la cultura tedesca e la cultura boema, i fermenti ungheresi e delle  nazionalità slave, e, alla periferia, anche la cultura italiana.
Ai nazionalisti, dal 1915 in poi, è sempre sfuggita la vera natura dell’italianità di Trieste: che non consisteva in una purezza etnica o in una fissazione di superiorità (come invece accadeva per le popolazioni tedesche mescolate a polacchi e lituani), ma che consisteva in una scelta culturale. Trieste, nata nel Settecento come porto mercantile, cresciuta per l’arrivo di gente d’ogni Paese (dalla Dalmazia e dalla Serbia, dalla Slovenia, dalla Grecia, dall’Austria, dall’Ungheria, dalla Boemia, ma anche dal Veneto e dall’Istria, dalla Puglia e dalla Sicilia), formatasi nel culto dei valori e delle attività borghesi, quindi dell’utilitarismo, a un certo momento della sua vita ha scelto la cultura italiana: e, scegliendola, la assumeva come inveramento di tutte le componenti cosmopolite della sua civiltà.
Ma l’Italia che arrivò a Trieste nel 1918 e, purtroppo, buona parte dell’Italia che vi tornò nel 1954 (almeno, certamente, l’Italia ufficiale) non era il Paese adatto a comprendere la ricchezza della civiltà che Trieste offriva al Paese; diciamolo francamente, l’Italia era molto inferiore al concetto che Trieste si era fatta della madrepatria. Un paese gretto, piccolo-borghese, autoritario, era fatto soltanto per stimolare le componenti di grettezza e di autoritarismo di una parte della borghesia triestina. Il fascismo italiano si incontrava con la parte peggiore del nazionalismo locale, e doveva fatalmente spegnere le manifestazioni politiche dell’anima democratica e internazionale di Trieste: il patriottismo democratico dei repubblicani, l’europeismo dei socialisti, i contributi culturali (magari polemici e all’opposizione) degli sloveni. Nel 1918, i triestini avevano creduto di immettersi in un Paese giolittiano, con gli anticlericali e gli ebrei nella classe dirigente, quindi più libero dell’impero austriaco, non laico, anti-federalista e anti-ebraico, e trovarono il fascismo; avevano lasciato un’atmosfera culturale cosmopolita e si trovarono governati da una classe politica imbevuta di dannunzianesimo e di connessa “superiorità” latina.
Né le cose andarono molto diversamente dopo il 1954. La nostra burocrazia statale era (ed è ancora) conservatrice e nazionalista; e la classe politica si appagava dell’apparente successo costituito, di fronte al corpo elettorale, dal ritorno di Trieste all’Italia: dell’Istria perduta, dei profughi istriani, fiumani e dalmati nessuno – salvo gli eredi del fascismo – sapeva o voleva saper nulla. I rigurgiti nazionalisti nelle cerimonie ufficiali si sono sempre alternati ad una sostanziale indifferenza, ad una totale incomprensione delle caratteristiche di questa città e del ruolo che essa potrebbe giocare tanto nell’ambito del Paese, quanto nella proiezione della civiltà italiana sull’Europa centrale e orientale come invece ha fatto soltanto Riccardo Illy da sindaco e da presidente del Friuli Venezia Giulia, fino a lavorare per l’EuroRegione.
Infine, l’unione di Trieste al Friuli nel nuovo ordinamento regionale non ha fatto altro che cucire legalmente due entità non solo staccate, ma dagli interessi opposti, almeno per ora.
Il senso di questi anni amari, il senso della delusione subita per due volte da Trieste, la convinzione dello “spreco” di una civiltà italiana e internazionale insieme, si ritrovavano già in un vecchio libro di Anita Pittoni (L’anima di Trieste, Vallecchi Editore), ricco d’informazioni e di annotazioni, ma soprattutto centrato su due tesi: il misconoscimento di Trieste operato dall’Italia (sia quando il Paese fu travolto dal nazionalismo sia ora che si è ripiegato nell’indifferenza); e il fatto che Trieste non si è “ricongiunta” all’Italia, ma che le si è “unita”, portandole una civiltà complessa e particolare, che è stata rifiutata. Anche se, per portare all’Italia la sua particolare italianità culturale, la città ha rinunciato (deliberatamente con gli Stuparich e con tutti gli intellettuali che nel 1915 scelsero la nuova patria) al ruolo di primo porto dell’Impero, di centro marittimo dei commerci.
Anita Pittoni , questa donna intuitiva e operosa (che sulle orme di esempi illustri continuò a smentire, triestinamente, il mito falsamente umanistico dello scrittore che non vuole o non sa essere attivo oltre la pagina scritta,  e che per molti anni si era fatta editrice dello Zibaldone, cioè promotrice della più utile e ricca iniziativa culturale triestina), Anita Pittoni – dicevo – scriveva molto acutamente che dalla “nuova città del ceto mercantile”, dalla città cosmopolita di commercianti, nel giro di poche generazioni si è formata una nuova categoria, quella degli scrittori, i quali hanno reso italiana l’aria tutta particolare di questa nuova città. I nuovi venuti, scriveva la Pittoni, “non vi hanno trovato resistenze di tradizioni, nulla di tutte quelle ricchezze che i secoli hanno stratificato in ogni altra città d’Italia e d’Europa: non feudalismi, non aristocrazie, non teocrazie”. Qui è nata una nuova società, “una spontanea federazione di popoli”, la cui autocoscienza è diventata coscienza nazionale, italiana: ma senza rinunciare all’apporto delle civiltà vicine.
Questo sviluppo della cultura  dal mercantilismo cosmopolita, e questo equilibrio unico fra origini multinazionali e approdo alla civiltà italiana, oltre che essere enunciati nelle lettere ad un professore immaginario che costituiscono la prima parte del libro, trovano conferme ulteriori in altre due parti. Dapprima, nel capitolo in memoria di Roberto Bazlen (1902-1965) il quale, nella storia della sua famiglia e della sua stessa vita, fu un esempio delle tesi della Pittoni. Figlio di un tedesco luterano e di un’ebrea veneto-triestina, Bazlen dedicò gran parte della vita a introdurre la cultura germanica in Italia: come consulente di Einaudi prima e dell’Adelphi poi, diede un contributo decisivo alla pubblicazione in Italia di Musil e alla scoperta di Broch, Walser, Gombrowicz e altri.
Un’altra conferma si ha nella parte composta dai documenti rari e inediti della storia di Trieste dal 1774 al 1947. Da alcune pagine di Antonio De’ Giuliani ai documenti sulla questione universitaria di Trieste, dalle lettere di Domenico Rossetti alle relazioni di Valentino Pittoni e agli scritti di Giani Stuparich, il contributo esemplificativo della Pittoni alla storia culturale di Trieste è stato grande e acuto. Particolarmente due aspetti di questa documentazione meritano di essere segnalati.
Il primo riguarda il socialismo triestino, guidato per molti anni da Valentino Pittoni, zio della scrittrice e padre di Bianca, la giovane che seguì Turati nell’esilio. I discorsi di Valentino Pittoni sono riportati nel libro per dimostrare quanto fosse falsa l’accusa di austriacantismo che i nazionalisti scagliavano contro i socialisti triestini. È che questi ultimi speravano nell’accordo delle nazionalità contro la monarchia; essi erano ben lontani da quella guerra delle nazionalità che in seguito portò alla regione tanti lutti e disgrazie. I socialisti triestini erano degli europeisti ante-litteram e credevano di poter trovare la soluzione dei problemi delle nazionalità in una federazione doganale che avrebbe dovuto sostituirsi all’Impero.
Valentino Pittoni scriveva nel 1905: “Nessuno può dimostrarmi che sia assolutamente necessaria l’unione politica per la difesa della propria cultura… La solidarietà nazionale può esistere anche senza l’unione politica. Noi viviamo solidamente con il popolo italiano, mentre siamo legati da interessi politici economici con altri paesi e con altre nazionalità, ciò che non impedisce a noi di coltivare la nostra lingua e la nostra nazionalità”.
Era una delle tre posizioni che Giani Stuparich già nel 1920 definiva tipiche, parlando di ben tre distinte personalità: Angelo Vivante, socialista con idee vicine a quelle di Pittoni, Ruggero Fauro irredentista, Scipio Slataper, combattuto fra irredentismo e socialismo. Di Giani Stuparich, Anita Pittoni riporta anche il programma e l’editoriale di una rivista progettata nel 1947, per difendere i valori culturali di Trieste. La pubblicazione, che si sarebbe chiamata “Porto”, sarebbe costata cinque milioni e mezzo nel primo anno, che Stuparich e altri chiesero al governo italiano. Ma l’Ufficio Zone di Confine presso la Presidenza del Consiglio respinse la proposta: cominciava il secondo periodo dell’incomprensione italiana per Trieste e per la sua funzione culturale fra Italia ed Europa.
Bene aveva fatto Anita Pittoni a ricordare anche questo particolare. Nel suo libro “scomodo”, tesi e dimostrazione prendono luce reciprocamente, in un acuto gioco d’intelligenza che lascia amarezza al lettore. È l’amarezza dello spreco che noi stiamo facendo: spreco di una città, di una cultura particolare, di un modo di essere più europei, che Trieste ci offriva e che noi abbiamo rifiutato, non si sa se per rigurgito nazionalista o se per borbonismo mediterraneo.
LO “SPRECO” DI TRIESTE IN UN LIBRO DI ANITA PITTONI

©, 2005
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