CACCIATORI di FRODO
2-7
A Ernest Hemingway, ai sui “Racconti di Nick Adams”
Castellaneta
e alla memoria di Carlo Castellaneta

 

Non ricordo il nome di quel giornalista. E se lo ricordassi, non potrei citarlo. Lo chiameremo Ernesto, tanto per collocarlo in quella atmosfera vagamente hemingwayana che sta per assumere questo mio racconto.
Un racconto di cacciatori, e di derive nella pianura lombardo-piemontese, situazioni limite.
Sono passati circa vent’anni. Ma ricordo ancora, come fotogrammi per sempre incisi sulla pellicola Kodak /Analogica della mia mente, alcune scene, di allora. Alcune cose sentite. Alcune emozioni provate. Non positive, ma che, allora, mi servirono a crescere, e mettere il naso fuori, a respirare l’odore sporco della vita.
Ricordo ancora con simpatia questa persona, nonostante fosse una persona profondamente losca. Si spacciava per giornalista, credo pubblicista, ma avevo capito che – come altri e altri che incontrai in questo ambito – usava il tesserino solo per imbucarsi nelle situazioni dove quel lasciapassare poteva far ottenere qualche beneficio, qualche stretta di mano, magari solo una cena gratis, senza mai scrivere un solo articolo, cosa di cui, credo, non sia stato più – o mai – capace.
Se lo devo paragonare a un animale, mi viene in mente un piccione, che si avvicinava ai tavoli – ai tavoli però della gente che conta – sperando che cadesse a terra qualche briciola. Una ricerca incessante, vorace, senza sosta, proprio la stessa ricerca che alimenta il continuo zampettare e becchettare dei piccioni. Alla fine anche un po’ molesta, malgrado, tutto sommato, piuttosto innocua. Basta un calcio nella sua direzione, che il piccione, con uno scomposto e vigliacco battito d’ali, si scosta … ma dopo due minuti… ritorna…
Ernesto, era proprio così. Solo che, alla fine, quando cercò di mettere gli occhi più del dovuto sulla mia ragazza, gli diedi uno di quei calci, che non tornò più.
Si professava interista. Passava le sue giornate non-si-sa-bene-come.
In quello che doveva essere il suo studio di giornalista, il soffitto era tinto di neroazzurro. Il pavimento, era una vera e propria discarica di pattume e immondizia varia, in mezzo alla quale resisteva, in un certo ordine, una piccola scrivania sormontata da una arrugginita macchina da scrivere. Trovai, nel pattume, un cd, che gli chiesi il permesso di “rilevare”: conteneva della ottima musica inglese. Un giorno, dal pattume, quasi rotolandovi sopra, Ernesto rinvenì una bottiglia di whisky già stappata: ce ne facemmo diversi sorsi a canna, e così via…
Non si sa bene di cosa vivesse. Nella piana amorfa che contorna cittadine come Limbiate e Solaro, aveva un capanno, con una branda bene in vista (ad usi credo cornificanti la moglie) dove portava avanti una non ben precisata attività di disegnatore di lapidi e piccole Opere funerarie. Il capanno aveva un che di Frontiera veramente hemingwayana, con una stufetta e tutti i comfort – in piccolo – di una reggia, senza troppe pretese. In fondo, Ernesto amava la vita, i comfort, i piaceri terreni, e se lo sapevi tenere a debita distanza, era un tipo simpatico ed innocuo. In macchina, nella tasca della portiera, mi mostrò una confezione di Viagra… con l’aria di quello sempre “pronto”…
Da ex socialista, era passato nelle file della Lega. Ho conosciuto altri leghisti come lui, e della stessa età, sui 65. Ho potuto notare in tutti questi soggetti una forte carica testosteronica, un qual aspro orgoglio sessuale, e disprezzo per le donne, con una forma di arroganza velata da maniere educate e dirette. Gente che ha sempre ragione, che non si piega e che, se chiede scusa, lo fa solo a denti stretti, quasi ringhiando. Gente che, di solito, amministra, chi più chi meno, una certa qual forma di potere, in minima parte, piccoli potentati che, nel loro piccolo, si trasformano in prepotenti. Qualcosa sul potere dei piccoli potentati, la espresse Dostoevskij, non ricordo se nei Fratelli Karamazov o nei Demoni: in sostanza, più è piccolo il perimetro del potere di chi il potere lo esercita (un usciere, un portinaio, un piccolo funzionario pubblico), maggiore è la sua arroganza, la sua protervia, la sua prepotenza. Su tali soggetti, è da dire anche che sono perennemente affaccendati, impegnati in qualcosa di importante, a loro dire, ma che non svelano, che non ti dicono, lasciando questa loro “attività” contornata da un alone di mistero, salvo avvalorarne l’esistenza con discorsi anti-statali e sovversivi sulle troppe tasse, ecc… … sempre con quel tono offeso, ma educato, educato, ma attraversato da una sottile, vibrante arroganza…
Mi trovavo in quel frangente, in cui ero costretto a dare la mia opera a qualche rivista pagante, per ottenere il tesserino di pubblicista. Ernesto mi “prese al laccio”, offrendomi di collaborare con un fantomatico Annuario edito in Germania, ma scritto in italiano, su argomenti culturali all’apparenza molto elevati, ma con firme di totale irrilevanza, infimi scribacchini che non so Dio come gli abbia potuto mettere una penna in mano. Cataste di quella improbabile Rivisita galleggiavano sulla spazzatura di quel suo loculo sormontato dal soffitto pittato di neroazzurro. Tra i collaboratori spiccavano Dottori Dottoresse Professori, ecc… con tali facce da idioti da far pregare il Cielo che smettessero di insozzare il mondo con la loro protervia para/culturale. Sulle prime, abboccai all’offerta, ma tempo quindici giorni, declinai, e continuai a frequentare questo strambo personaggio solo a fini personali, di raccolta di esperienze dirette per miei futuri lavori letterari (di cui uno è il presente, se tale lo si può definire… lascio a Voi il giudizio).
Arrivavo nella brughiera alle porte delle porte di Milano, dove sorgeva la palazzina – alta quattro piani, e tetra come un’ala cimiteriale – in cui abitava Ernesto. In una sorta di vecchia aia di cascina, coperta di pantano, delle passatoie portavano all’ingresso. Tutt’attorno, v’era un cimitero di attrezzi arrugginiti, e vecchie macchine di lusso, Jaguar, BMW, macchine inglesi due posti, in completo sfascio, che ho l’impressione Ernesto lasciasse lì a marcire, per poter dire: sono state mie, nella vita io ho fatto i soldi, i dané.
Si passava direttamente nel loculo nerazzurro, dove, per una quindicina di minuti, si facevano piani di scrittura. Sulle prime, io gli stavo dietro, poi, imparai a dire sì, senza muovere un solo dito sulla tastiera, tornato a casa mia. Intanto, mi facevo portare in giro, in quei vagabondaggi che iniziavano sempre, non appena terminavano i 15 minuti di piani di scrittura, nel cortile di casa sua, montando su una vecchia, ma ancora potente, autovettura. Fra trattorie ai confini con il Piemonte, amici cacciatori di frodo dediti a merende frugali in un rimessaggio di disinfettanti ad uso agricolo, e, a tarda sera, in locali che un tempo si chiamavano Night, defilati e in zone depresse di Milano, come il Morivione, dove le sue amiche attempate mi puntavano addosso i loro occhi smaniosi (solo ora rimpiango di non essermi concesso un’avventura con una di queste donne davvero affascinanti, un tantino losche, da vecchia mala milanese, ma dai modi così diretti, che possono avere solo omosessuali o trans e donne in età). Ovvero, sbarazzavano il campo – subito – da ogni fraintendimento, da ogni timidezza o vergogna, e ti portavano, con decisione, ma con altrettanta poesia, verso il luogo del piacere… ma ripeto, non ne ho approfittato, e ora me ne pento…
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… questo era una sorta di prologo.
… in cui volevo arrivare a parlare dei “cacciatori”…
Uno di questi, era uno spilungone, un vecchio democristiano dedito all’Ostia quanto al Sangue di Cristo, di cui ne tracannava intere damigiane, sino a colorargli la faccia di quel rosso paonazzo che, sui suoi lineamenti da sacrestano che ama le donne, ma non riesce a scoparsele, si mescolava alla parlata da povero veneto, espiantato e venuto in Lombardia, a vivere in un rimessaggio di disinfettanti, tanto lontano da una sua fantomatica moglie – sempre a casa, chissà dove – quanto dalle donne in genere. Gli amici ci ironizzavano sopra, ma lui aveva trovato con me un buon canale comunicativo, si fidava e, mentre mi mostrava la canna del suo Beretta con cui aveva abbattuto un Cervo in una battuta di cacia di frodo, scampando per miracolo alla Forestale, mi raccontava di come, da giovane, di donne non se ne facesse scappare una sola, nel giro di 10 metri. Eccetera…
Ernesto, dietro mia indicazione, arrivava nel rimessaggio con pollo allo spiedo e vino, e qualche filoncino di pane ancora caldo… gli altri cacciatori, maneggiavano i loro fucili, se li mostravano a vicenda, come i bambini si mostrano il pisellino, e fanno a gara ad averlo più lungo… io speravo sempre che le armi fossero scariche, e che non dovesse mai partire un colpo “per sbaglio”…
Un mattino, troviamo il “Sacrestano” con la testa fasciata. Aveva fatto un incidente in auto. Era di ritorno da una delle sue battute di frodo, senza aver ammazzato alcun animale, che, su una strada di montagna, una mini-lepre gli schizza davanti al muso della macchina. Tanta era la frustrazione di non aver abbattuto alcunché, che si mette all’inseguimento del minuscolo animaletto, nel tentativo di ucciderlo investendolo. Quando crede di avercela fatta, l’animaletto s’inabissa in un dirupo, e lui dietro, con l’auto, facendo un volo di diversi metri, andandosi a fracassare sul tornante sottostante.
A raccontare la vicenda, è un tizio dal fisico deforme, dalla faccia un po’ da deficiente, che ci ride sopra di gusto, e intanto lucida la canna del proprio fucile.
Per tirarlo su, Ernesto gli intima l’ordine di salire in vettura: destinazione, la piana del vercellese, dove vi sarebbe una cascina da rilevare, per farvi sorgere un albergo.

 

CACCIATORI di FRODO

 

La macchina sfreccia verso il confine lombardo/piemontese. L’autoradio trasmette con voce laconica le votazioni al parlamento, e Ernesto fa il tifo per la Lega. A ogni Legge o Mozione che passava, dava un colpetto al volante, in segno di soddisfazione, poi ruotava la testa verso di me: «Sai a quanto stiamo andando?»
Io stavo zitto.
Lui replicava: «a duecentoquaranta … e non senti niente… che macchina, eh?»
Vedo la Sesia precipitare verso valle in piena, un vorticoso disegno di onde e schiuma bello da dipingere. Rettilinei che si perdono all’infinito, in questa pianura brunita, piatta e uniforme, senza un albero, senza una casa, qualcosa di simile ai vasti orizzonti americani. Non conoscevo questi luoghi. Dopo la visita al rudere della cascina, dove i due pianificano arredi e guadagni, Ernesto ci porta a mangiare in uno snack bar sulla Statale.
C’è una luce intensa, un sole di Frontiera, un bagliore accecante su ogni cosa. La casupola sorge nel nulla, su uno stradone trafficato. La targa riporta la scritta: Cucina con Chef.
All’interno, mobilio ordinario e un salone completamente vuoto. Fatta eccezione per un tizio sprofondato in fondo allo stanzone, nel controluce filtrato dai tendaggi. Siede con aria autoritaria, silenzioso, mite e al tempo stesso pieno di un suo orgoglio che non gli rende necessario parlare o muoversi. E’ il capo assoluto dei cacciatori di frodo della zona.
Sediamo, e lui ci offre un pranzo completo. Mentre ci parla di come cacciare pesci la cui pesca sarebbe vietata, utilizzando marchingegni fatti di tubi di grondaia e fil di ferro, con esche posizionate in una maniera speciale, e di come fare la posta a quel tal altro animale, sfidando la Forestale.
Parla con cadenza da Toro Seduto, e può far valere la Propria Legge, perché in quei vasti territori, la Legge, quella vera, è difficile farla rispettare. Si è creato il suo Bunker, la sua ristretta, ma molto ben curata e sorvegliata, zona di azione. Un piccolo potentato, anche lui, che amministrava il proprio potere, a proprio piacimento.
Di ritorno, facciamo visita, in un quartiere di case popolari, a un vecchio fascista della Decima Mas. Un nostalgico, che imbraccia la chitarra, e ci suona la Ballata del Morivione, una stramba e triste canzone che parla di un travestito, che raggranella qualche soldo con povere marchette, con clienti che si accontentano di una donna finta, non potendo avere quella vera.

 

©, 2017

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