Il vivere civile fuori dal virtuale
LA NOSTRA TESTA NON E’ UN MICROCHIP
… nel 2012 si iniziava a comprendere che la bolla stava esplodendo…


In un mondo sempre più virtuale, sempre più social (network) e sempre meno sociale, sempre più chiuso in scatole e scatolette di individualismo autoprotettivo, qualunquista, impaurito, c’è un luogo – eh sì, un luogo che costa il prezzo di un biglietto, e fa risparmiare in benzina, bollo, parcheggio, multe, stress – che si chiama “mezzo pubblico”, che, a mio avviso, rappresenta l’ultima frontiera del vivere civile, cittadino, ma, simbolicamente, tout court, del vivere-nella-civiltà, con gli altri, tra gli altri.
Perché lo dico? Perché è semplicemente evidente!
Il mezzo pubblico, che a Milano si chiama mezzo ATM, è un luogo dove il vivere civile raggiunge una sua espressione compiuta. Al suo interno non ci sono classi sociali, non ci sono fedi politiche, non ci sono razzismi religiosi o etnici, e il prezzo del biglietto è uguale per tutti. Inoltre, il mezzo pubblico rappresenta un luogo in cui si condivide lo spazio fisico con altri, in piena educazione, e, se vogliamo – negli orari di punta – sopportazione, in certi casi, ho visto anche della collaborazione.
biglietto ATM
Mi mettono tristezza le facce delle persone intrappolate nelle loro scatolette a quattro ruote, persone sole, pungolate dall’ansia di tanti pensieri vissuti nell’isolamento, mentre è spesso una gioia scambiare quattro chiacchiere col compagno di viaggio, in tratte che – a Milano – a volte durano anche un’ora e più.
Allora, perché, per un giorno, non proviamo a lasciare ferma la macchina, e non saliamo su un mezzo?
Per un giorno, perché non proviamo a lasciar perdere facebook, e non proviamo a suonare al vicino o alla vicina di casa?
Credo ci sia sempre più bisogno di spazi fisici reali, condivisi, e non virtuali, di comunicazioni fatte a voce, e non solo per e-mail, di libri letti seduti sulla poltrona, sfogliando le pagine, e non sul monitor, di luoghi in cui esprimere pareri più complessi, pensieri più fluidi di un semplice “mi piace” o “non mi piace” come avviene cliccando sul bottone di un sito, accanto all’articolo.
Uomo è sinonimo di complessità, fatta di fisicità, coscienza, linguaggio (e molto altro). Non possiamo continuare a restringere gli ambiti della sua azione a luoghi individuali, privati, e virtuali. Ci stiamo perdendo un gran pezzo di vita, in cambio di una non-vita, di una esperienza dimezzata. Ci stiamo inaridendo con continue docce di cybernetica, e stiamo perdendo il piacere di compiere scelte con la Nostra testa. Sì, perché nel mondo di oggi avviene, spesso, di non scegliere con la propria testa, ma seguendo l’onda. Un’onda lunga, dovuta alle mode, all’euforia, e anche alla crisi. Il ricatto della crisi ci fa sottoscrivere tessere di fidelizzazione al supermercato, ma è proprio nei momenti di crisi che non dovremmo sottoscriverle, per recuperare la Nostra dignità, la Nostra testa – con cui pensare, e agire.
Tornare alla fisicità, al corpo e alle sue espressioni naturali, significa scrollarsi di dosso il cascame tecnologico – che è diventato cascame culturale o sottoculturale – degli ultimi anni, riscoprire di avere un corpo con dei bisogni non virtuali, delle emozioni, e una testa, che non è un microchip. 
©, 2012

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1 COMMENTO

  1. D’accordo su tutta la linea: se non siamo ancora ad un aut aut, siamo almeno prossimi ad una selezione che esistenzialmente è difficile procrastinare. “Internient” e i “social de-socializzanti” riducono l’umanità e il suo rapporto sociale col mondo (il “mondo” è una campo di forze ove ogni individuo si muove con coscienza o un qualcosa di pulito, e da pulire da ogni complessità?) ad una macchietta anonima. Una sorta di riedizione del divertissement pascaliano, che deproblematizza i rapporti umani – e l’uomo stesso – a favore di una virtualità facilona, lineare, amorale, ove manca l’uomo stesso. Meglio il disimpegno, meglio pascere nel consolante giaciglio di una comune e grigia appartenenza, sharingando e likeando fuffa, meglio occultarsi nell’anonimato del “noi virtuale”, anziché riscoprirsi autonomi e complessi attori del proprio agire.

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